La Terra del Fuoco arde solo di ghiaccio e la capitale dell’equivoco, Ushuaia, è l’ultima città degli umani. Sporgendosi oltre, si casca nell’Oceano e navigando mille chilometri ancora più a Sud si sbocca nell’Antartide. Fine delle trasmissioni, fine del mondo.
Per cogliere il senso della solitudine latino-americana, il viaggio deve dunque partire da qui, dove la lontananza non è un sentimento, ma è l’orizzonte: una lunga distesa bianca custodita dalle montagne, ravvivata dal vento, accarezzata dai canali. L’amico dell’uomo non è il cane, ma il pinguino. Le bussole faticano a indicare il Nord, la Luna ad avere la meglio sul Sole e i nativi a fare a meno degli arrivi. Ushuaia è il luogo dei pionieri senza storia, di donne e uomini che sono sbarcati per essere dimenticati, e forse per dimenticare.
Il primo fu il portoghese Ferdinando Magellano, l’inventore del paradosso. Poiché vide i falò che gli indiani improvvisavano per scaldarsi dal gelo, quel navigatore del Cinquecento fu colpito dal dettaglio osservato, anziché dalla vista generale. “Terra del fumo”, sentenziò, e i più letterari spagnoli “Terra del Fuoco” trascrissero per sempre.
Chi allora aveva l’ardire di spingersi dove nessuna Corona d’Europa osava guardare, già decretando che il Sud del pianeta avrebbe dato all’umanità più problemi di quanti ne avrebbe risolti -e perciò non era il caso di sfrucugliarlo-, restava estasiato dal panorama, “totalmente diverso da tutto quello che s’è finora conosciuto”.
E’ l’imponenza ciò che sorprendeva e sorprende. La neve porta al ghiacciaio, la pioggia alla bufera, il mare alle dune d’acqua. Ma ogni grandezza ha la sua generosa cadenza, non c’è tradimento degli eventi e perciò l’uomo, l’uomo argentino, può convivere col maestoso dintorno a patto di conoscerne le abitudini stravaganti.
Nulla invece conosceva Charles R. Darwin quando, arrivando con la nave “Beagle” -da cui il “canale del Beagle” condiviso e conteso fra Argentina e Cile-, s’imbatté negli indigeni. D’accordo, era poco più che ventenne il naturalista inglese partito per il giro del mondo dei cinque anni. E s’era, ormai, nel 1831, lontano periodo di pregiudizi. Ma degli abitanti incontrati, Darwin arriverà a scrivere: “Le più abiette e miserabili creature che si siano mai viste”. Le sue descrizioni, che influenzeranno a lungo il mondo scientifico, così continuano: “Fino a quel momento non avevo idea dell’enorme differenza che esiste tra un uomo civilizzato e un selvaggio. Questa differenza è maggiore di quella esistente tra una belva e un animale domestico, per quanto nell’uomo esista una grande capacità di educazione, molto superiore a quella degli animali”.
Nessuna comprensione per i pochi aborigeni, nemmeno tremila, e che gli esploratori del tempo liquideranno come dei pericolosi cannibali. E li liquideranno.
Ma della Patagonia argentina, che abbraccia la parte più meridionale dell’America meridionale, e che è grande tre volte l’Italia, Darwin ricorderà più di ogni altra cosa le vergini foreste della Terra del Fuoco, “dove prevalgono la dissoluzione e la morte”, a differenza di quelle in Brasile, “dove predomina la vita”. “Le une e le altre sono tempi pieni delle varie produzioni del Dio della Natura”, dirà ancora nel “Diario del viaggio di un naturalista attorno al mondo”, pubblicato a missione compiuta, due anni dopo. “Non c’è nessuno che, trovandosi in queste solitudini, smetta di commuoversi e di sentire che nell’uomo esiste qualcosa di più del mero soffio materiale del suo corpo. Nell’evocare immagini di quanto avvenuto, davanti ai miei occhi vedo spesso passare le pianure della Patagonia e, con tutto ciò, sono generalmente considerate come incolte e inutili. Possono essere solo descritte per gli aspetti negativi: senza abitazioni, senza acqua, senza alberi, senza montagne, senza vegetazione, a parte alcune piante nane. Perché allora, e non sono l’unico a cui succede, perché questi aridi deserti hanno gettato radici tanto profonde nella mia memoria? Perché non fanno altrettanto le verdi e fertili Pampas, superiori alle estensioni patagoniche per le qualità segnate e nell’ampliarsi di livello e nel produrre maggiori benefici per l’uomo?…”.
Nostalgia dell’assoluto, ma Ushuaia, l’ultima città della Terra e l’ultima reminiscenza indigena (il nome significa “baia che penetra verso l’oriente” dall’idioma yámana), è un rifugio del presente. Un rifugio piccolo e inclinato sul porto, come se avvertisse il peso dell’universo su di sé. Se Atlante ancora vive, questo è il luogo del suo riposo.
Appena cento erano gli abitanti, cent’anni fa: “Nel centro ci sono quattro case e in due di esse dei biliardi. Tutte sono in grado di ospitare marinai”. Ma anche di ospitare missionari, che prima saranno anglicani e poi salesiani. La differenza tra i primi e i secondi forse incide sui rapporti stabiliti con quel che resta degli indigeni: gli italiani arrivano troppo tardi per smontare le teorie di Darwin. Addio “selvaggi”.
L’acqua che si specchia sulla baia è azzurra, almeno quanto il cielo quand’è di buon umore. Si vive di pesca, di caccia, di commercio (poco). Si vive navigando e tagliando legna nei boschi. Ma ai primi del Novecento la fine del mondo conosce l’unica rivoluzione della sua storia: al posto del faro che saluta con l’ultima luce della Terra chi s’avventura verso Capo Horn, il nuovo simbolo del luogo diventa una prigione. La più grande prigione del Continente, la Caienna del ghiaccio che avrà un nome senza cognome: “El Presidio”.
L’idea era quella di mandare all’estremità del pianeta, da Buenos Aires e dintorni, i peggiori ceffi in circolazione. E la fama de “el Presidio” fu subito così spaventosa, che i condannati preferivano cercare la morte buttandosi dalle navi nel Río de la Plata, mentre partivano, piuttosto che essere portati a Ushuaia per vivere lì il resto dei loro giorni. A sorpresa, la mèta dell’indipendenza, il punto della cartina geografica raggiunto il quale si spariva per sempre, liberamente, si trasformava in un grande carcere a cielo aperto. Non la fine del mondo: il mondo finito.
I reclusi arrivavano trascinati in catene, ma quella era la meno insopportabile delle sofferenze. Una volta sbarcati, non c’era più ragione alcuna per legargli piedi o mani. Anche se avessero voluto scappare, dove sarebbero mai andati? Quanto potevano resistere sotto gli zero gradi nel suolo o naufraghi nell’Oceano? La speranza non contemplava zattere in vista né complicità nel troppo piccolo paese. Qui Papillon non avrebbe trovato inchiostro per la sua penna e per la sua pena.
I sorveglianti chiamavano “carceri delle porte aperte” quel penitenziario che rinchiudeva per sempre. Sarcastici ma realisti: nessun muro di cinta era stato alzato intorno alla struttura di cemento, perché la fuga era più che impossibile: impensabile. E così per mezzo secolo, tanto quanto il Presidio ha presidiato, gli abitanti hanno potuto vedere i reclusi al lavoro, nel cortile, e perfino immaginarli nelle loro gelide celle (1,97 cm per 1,97). Soltanto un fil di ferro alto due metri segnava l’inesistente confine fra chi stava dentro e chi fuori. “Chi va a Ushuaia, non ritorna”.
Sembravano una squadra di calcio, quei condannati all’oblio. La divisa era a strisce orizzontali gialle e azzurre con tanto di capellino in tinta. Il motto degli “allenamenti” suonava così: “Lavoro, silenzio, ordine e disciplina”. E s’allenavano tutti i giorni, i mai fermi detenuti, costruendo all’aria ogni genere d’opera per la città. Sono sorte case, sono stati fatti acquedotti e riparati i binari per il trenino. Erano, i galeotti, dei perfetti “Antenati” (o “Flintstones” come oggi s’usa dire).
Quei delinquenti sono stati gli artefici dell’onesto sviluppo. La gente imparava a riconoscerli dalla forza con cui picconavano la pietra o segavano i tronchi. A conti fatti, l’esercito dei reclusi non ha imprigionato ma, al contrario, liberato la città; l’ha ingrandita e abbellita al prezzo dell’ergastolo. E al prezzo della vita, come capitava ai ribelli, a chi si avvicinava a meno di dieci metri dalla guardia armata, a chi decideva di tentare il tutto per il tutto, e moriva congelato a due passi dal penitenziario temerariamente abbandonato. Fiume Pippo è il nome che ricorda un detenuto fuggito e trovato morto tre giorni dopo.
Con gli anni, l’incolore Presidio è stato restaurato. Come in una galleria insieme dell’orrore e del riscatto, è stata ricostruita la carriera dei principali criminali-lavoratori. Delitto per delitto, fotografia dopo fotografia. Mateo Banks, detto il mistico, fu il primo pluri-omicida dell’epoca (1922), mentre Cayetano Santos Godino, soprannominato el petiso orejudo (il piccoletto dalle grandi orecchie), s’accaniva sui minorenni. E poi spuntano le vicende dello squartatore, dell’uxoricida, del mafioso, del truffatore: tutti a Ushuaia, e Ushuaia tutto racconta. Compresi gli arrivi controversi del condannato politico, dello scrittore, dell’anarchico nella Siberia sudamericana. Tutto il mondo è paese anche alla fine del mondo.
La chiusura della Caienna da cui sono passati, e rimasti, centinaia e centinaia di condannati, coincide con l’approdo di una nave che segna il destino della città. Ushuaia come Buenos Aires, stavolta, Ushuaia che diventa il sogno degli italiani.
E’ l’ottobre del 1948 quando il piroscafo Genova giunge con un migliaio tra lavoratori e familiari al seguito (e i residenti non sono troppi di più). L’anno successivo sarà il turno di un secondo e altrettanto numeroso contingente proveniente dall’Italia. Sulla base di un accordo fra il ministero argentino della Marina e un’impresa di Bologna, gli emigrati hanno il compito di fondare un centro industriale nella Terra del Fuoco.
Nascono due quartieri italiani anche di nome (“Villaggio Nuovo” e “Villaggio Vecchio”), si celebrano messe in italiano nell’antica cappella, si creano associazioni per mantenere vivo l’uso della lingua e la diversità dei costumi. Sanno, quegli italiani, che il principio che ha incatenato i detenuti per i primi cinquant’anni, varrà anche per loro, liberi cittadini, per i prossimi cinquanta: “Chi va a Ushuaia, non ritorna”.
Come si fa, d’altronde, a tornare indietro, quando si cammina ai bordi del mondo? Come si fa a non cogliere a Ushuaia, la “baia che penetra verso l’oriente”, il senso compiuto e sublime dell’essere a un tempo argentini e italiani?
Se da qui si guarda in avanti, l’immaginazione arriva e s’aggrappa all’Aconcagua, la cima più alta del Continente, come l’aspirazione degli argentini. Se si guarda dalla parte opposta, lo sguardo atterra su un ponte che porta il nome di Garibaldi (un altro Garibaldi, non Giuseppe). L’ultimo ponte del mondo porta, dunque, il nome di un italiano. E l’Argentina si culla nel sogno delle due mete: l’Aconcagua che svetta e il Garibaldi che unisce, la cima e il ponte, l’America latina e l’Italia.
(Tratto dal mio libro “Se il mondo finisce qui”, Ideazione Editrice, Roma, 2004)