“Pensare all’Italia è pensare a Dante”, diceva Jorge Luis Borges, tra i pochi argentini senza ascendenze italiane. Eppure, quel grande scrittore raccomandava di leggere la Divina Commedia non in traduzione, bensì nell’originaria versione italiana. Perché Borges non dubitava: “Dante è il primo poeta d’Italia e forse del mondo”.
Ci sono molti modi, allora, per celebrare nel 2021 l’anniversario dei 700 anni dalla morte (1321) del padre della lingua italiana e sommo autore di uno dei capolavori della letteratura universale. Forse il modo più onesto è anche il più semplice: riscoprire la bellezza della lingua che fu sua, che è nostra e che deve poter essere di chiunque al mondo voglia parlarla, conoscerla, ascoltarla per il suo bel canto ovunque evocato e riconosciuto.
Per riscoprirla, la prima mossa concreta e simbolica può farla il Parlamento. In omaggio a Dante, per favore si cancelli l’obbrobrio semantico con cui è definito uno dei più importanti atti delle Camere: il governo che risponde ai quesiti dei legislatori, ossia il “question time”. Come se a Roma si riunissero legislatori del Regno Unito.
Il Parlamento italiano è l’unico del pianeta a non usare un’espressione nella propria lingua, la meravigliosa lingua del sì, per dire pane al pane, cioè che è arrivata “l’ora delle domande”, come tale atto è invece definito nella vicina, poliglotta e non complessata Svizzera italiana. Oppure “turno delle domande”, “tempo delle interrogazioni” o qualsiasi altra espressione liberamente offerta dall’infinita ricchezza dell’italiano. La conferenza dei capigruppo scelga a suo piacimento.
Se gli onorevoli vogliono onorare quel che Dante rappresenta, provino a cercare “question time” tra Inferno, Purgatorio e Paradiso. Altro che “lockdown”, “cashless”, “vaccine day” più tutte le brutture quotidiane che la classe dirigente italiana -unica al mondo- si beve e ripete come un sol pappagallo dall’inglese masticato (e pronunciato) all’amatriciana.
La controprova? Mettete in un traduttore in rete questi e altri anglicismi e vedrete che in spagnolo, francese, portoghese e romeno, cioè in tutte le lingue neolatine al pari della nostra, c’è sempre la traduzione corrispondente, mai la riproposizione del vocabolo tale e quale. Perché tutti gli altri rendono il vocabolo inglese nella loro lingua e solo noi, invece, facciamo un copia e incolla maccheronico e spesso sbagliato? Perché siamo così ridicoli e così provinciali, a fronte dell’universalità di Dante e della lingua italiana? Che bisogno c’è di scimmiottare modi e mode che fanno male persino a Shakespeare?
Cari presidenti del Senato e della Camera, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Roberto Fico, a voi e ai capigruppo di ogni forza politica bastano trenta secondi per cambiare “question time” in “l’ora delle domande” o in quel che vorrete.
Questo piccolo gesto del Parlamento, che non costa un euro ai cittadini, può diventare il primo segnale di consapevolezza perché poi, in felice ricaduta, anche il presidente del Consiglio, i ministri, gli economisti, i giornalisti, gli attori e doppiatori ci pensino un po’, prima di infarcire la lingua di Dante di termini grotteschi. E, per di più, incomprensibili a una grande platea di italofoni. Infarcire e infierire: finisca l’umiliazione della lingua italiana in balìa della pigrizia culturale, della sudditanza psicologica, dell’ignoranza di chi ignora che si può parlare italiano senza inchinarsi servilmente al primo neologismo che passa il convento globale.
Al Parlamento si richiede nient’altro che un atto d’amore e di liberazione per la lingua italiana, sì bella e perduta.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma