Il terzo e ultimo giro di consultazioni, che comincia e finisce domani, in ogni caso porterà a una scelta. Il Quirinale si prepara ad ascoltare ancora una volta tutti i partiti e i presidenti delle Camere, uno dopo l’altro dalla mattina alla sera, per poi tirare le somme. O meglio, le sottrazioni, visto che al di là dei buoni propositi espressi dai vari leader, in concreto e salvo sorprese essi continuano a sottrarsi alla loro principale responsabilità. Che è pur sempre quella di dar vita a un governo, sessanta giorni dopo il voto nazionale e oltre.
Lo scenario è di stallo, ma i veti incrociati hanno paradossalmente ribaltato tutte le posizioni in causa: chi voleva una cosa, non avendola ottenuta ora ne predica l’opposta. Dopo aver cercato invano alleanze sia a destra che a sinistra -ed averle comunque trovate con l’elezione dei vertici del Parlamento fatta d’intesa col centrodestra-, adesso il pentastellato Di Maio esclude di poter partecipare a nient’altro che non sia il voto anticipato. Prospettando pure una data secondo lui plausibile, il 24 giugno. Anche Salvini ha modificato in corso d’opera il suo implacabile orientamento. Giurava di non voler sottostare a una questua dei voti di fiducia nelle aule. Ora invece preme per poter avere, in qualità di leader dello schieramento più robusto, l’incarico per un “governo a tempo”. Dicendosi convinto di poter raccogliere consensi altrui (specie fra i parlamentari di Di Maio; ma Di Maio risponde picche) sulla base di un programma di pochi e vigorosi punti. A cominciare da una nuova legge elettorale, per tornare presto al voto.
Non meno ballerina, rispetto agli indomiti inizi, l’indicazione del Pd. Dopo aver resistito alla sirena Di Maio che li voleva in maggioranza, rivendicando invece il ruolo dell’opposizione (“governino i vincitori, se ne sono capaci”, li ha sfidati l’ex segretario ma ancora leader Renzi), adesso il reggente Martina assicura: daremo un contributo al lavoro del presidente Mattarella. Nessuna tentazione d’Aventino, dunque, dopo che è stata liquidata l’”impossibile intesa” fra Pd e Cinque Stelle.
Ma il punto politico è inseparabile dall’aritmetico: anche invertendo l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. Se Di Maio non si allea, se Salvini non trova altri consensi al di fuori dei propri, se il Pd non avalla una formula -fosse pure la machiavellica “non sfiducia” a un esecutivo-, lo stallo resta tale e quale. Nonostante le virate dei protagonisti. Ma da domani il protagonista sarà Mattarella.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza