Si sapeva che Donald Trump avrebbe mantenuto la sua incandescente parola. E così nel settantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele, l’ambasciata americana, presente Ivanka, la figlia del presidente, ha trasferito la sua sede da Tel Aviv a Gerusalemme.
Ma si sapeva anche che il trasloco avrebbe scatenato l’inferno. Tant’è che dal Papa all’Unione europea, a chiunque conoscesse un minimo la storia da polveriera del Medioriente, tutti esortavano la Casa Bianca a ripensarci. Casa Bianca e non il pur temerario Trump, perché tale orientamento, all’epoca irrealizzato, risale ai tempi di Obama.
La cronaca di queste ore ha purtroppo confermato le facili e nere previsioni. Contro la, peraltro, libera e sovrana decisione degli Stati Uniti, apprezzata dall’unico Stato democratico e vicino all’Occidente esistente in quella parte del mondo, e che si chiama Israele, è scoppiata la rivolta in Cisgiordania e soprattutto nella città di Gaza. Un’autentica guerriglia lungo il confine con lancio di pietre e di molotov contro i soldati israeliani, che hanno risposto sparando. Più di cinquanta palestinesi uccisi -compresi diversi minorenni- e oltre duemila feriti è l’esito drammatico dello scontro.
Per gli uni, il premier Netanyahu, il riconoscimento di Gerusalemme capitale unita e luogo delle tre fedi monoteiste da parte della principale potenza del globo rappresenta “un giorno fantastico”. Anche Trump esulta e conferma l’impegno degli Usa per “facilitare un accordo di pace duraturo”. Per gli altri, il presidente palestinese Abu Mazen che parla di massacro, ora gli americani non possono più essere “mediatori” nel conflitto sanguinante e senza fine.
Ma la scelta della Casa Bianca è politica e non solo simbolica. Con la sua mossa diplomatica che ha registrato l’assenza di quasi tutti gli ambasciatori degli altri Paesi all’apertura della nuova sede, l’America sta dicendo a tutti, e ancor più ai “vicini” Iran e Siria (e, per interposti Stati, alla Russia), che si schiera. Si schiera a fianco di Israele, secondo la sua tradizionale politica. E si schiera nel mondo, dove vuole tornare a contare senza subire egemonie altrui. Dalle minacce militari dell’oggi più ammansita Corea del Nord all’accordo sul nucleare appena stracciato con l’Iran, al braccio di ferro commerciale con l’Europa e con la Cina, Trump vuole dire la sua ovunque sia in ballo un interesse americano. L’isolazionista in patria è un interventista fuori.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi