Ogni giorno che passa, e presto ne saranno passati sessanta dal voto del 4 marzo, i contendenti tornano al punto di partenza per formare il nuovo governo. Salvini e Berlusconi, gli esclusi, almeno per ora, dal gioco dell’oca -posto che a dare i dadi in questo momento è Di Maio-, si sono abbracciati dopo aver detto tutto e il contrario di tutto sui Cinque Stelle. L’alleato necessario, secondo l’ottimista Matteo. Il nemico principale, invece, per il pessimista Cavaliere. Ma il centrodestra non si dividerà, assicurano entrambi, che sperano in un risultato confortante dalle odierne elezioni regionali in Friuli, dopo quello incoraggiante ottenuto nel Molise.
A loro volta Di Maio e Martina, il reggente del Pd, attendono un buon segnale dall’esito delle ennesime elezioni, mostrandosi pronti al dialogo. Il che, di questi tempi da gambero, con i partiti che fanno un passo in avanti e due indietro, è già qualcosa. Ma il volenteroso Martina premette: sarà la direzione del Pd a decidere se con Di Maio parlare sia cosa buona e giusta. Non basta. Bisognerà pure consultare con un referendum la base sull’eventuale intesa coi pentastellati.
Siamo, così, al balletto del “vorrei, ma non posso”, dove ogni leader apre le porte a una possibile coalizione con altri. Ma subito dopo chiude le finestre, temendo di tradire ciascuno la volontà dei propri elettori. La neo-proclamata terza Repubblica è rappresentata da tre forze distinte e distanti fra loro, nessuna delle quali autosufficiente.
Il punto, dunque, non è siglare un “contratto di governo”, come i Cinque Stelle propongono. Chi potrebbe non essere d’accordo su pochi punti che dicessero più lavoro e più felicità per tutti? Quando, però, si fa un governo, ben altre sono le responsabilità richieste, le competenze pretese, le scelte sull’economia, sulla sicurezza e sull’Europa da garantire. E allora lo sforzo di tutti per superare le divisioni rispettando il voto “tripartitico” del 4 marzo con i suoi vincitori e vinti, non si può ridurre a un concerto di belle parole.
Se la politica non avrà, tutta e indistintamente, un sussulto di maturità istituzionale, sarà il Quirinale a prospettare una “sua” soluzione di governo non sgradita a nessuno. Per approvare la legge di bilancio, cambiare la legge elettorale, non farci prendere per il naso a Bruxelles e poi tornare alle urne. Proprio alla casella d’inizio.
Come nel gioco dell’oca.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi