“Cambia, todo cambia”, cantava l’argentina Mercedes Sosa: tutto cambia. E i suoi connazionali l’hanno presa alla lettera, eleggendo al vertice dello Stato un borghese di cinquantasei anni d’origine italiana, Mauricio Macri. E’ cambiato il tango. Tifoso e già presidente del Boca Juniors, la squadra di Maradona anch’essa di forti radici italiane, è un liberale in economia in un Paese sedotto dall’assistenzialismo. Ma il nuovo presidente della Repubblica è soprattutto quanto di più lontano si potesse immaginare dall’ultima caricatura di peronismo incarnata da Cristina Kirchner, la donna che non riuscì a diventare Evita, pur avendolo desiderato.
Dopo dieci anni di kirchnerismo, prima interpretato con autoritarismo dal defunto marito Néstor (2003-2007) poi col populismo della subentrata Cristina fino a oggi, l’Argentina volta pagina. “Cambiemos”, cambiamo, si chiama, guarda caso, la coalizione di centro-destra che ha portato il nuovo presidente a battere, col 51 per cento dei consensi al ballottaggio, un altro e ancor più oriundo italiano di lui, il cinquantottenne Daniel Scioli, fermatosi al 48. Nella generale voglia di rinnovamento Scioli ha pagato proprio il fatto d’essere “il candidato di Cristina”, pur essendolo molto meno, in realtà, della parte che ha dovuto recitare. Anche per ragioni anagrafiche, e non solo per l’origine tricolore dei rispettivi padri, Macri e Scioli sono stati avversari, ma non nemici. E’ una novità nella bolgia di Buenos Aires, dove solo le partite dividono più dei partiti. La stessa campagna elettorale con inediti confronti all’americana e il tenero ringraziamento finale del vincitore ai suoi elettori (“Gracias, ahora más juntos que nunca”, grazie, adesso più uniti che mai), e uno scatenato e inusuale suo ballo, svela che forse sta cambiando il mondo, laggiù, alla fine del mondo. Finisce l’era pigliatutto del peronismo, all’ombra del quale i candidati si rifugiavano per non perdere. Mauricio Macri ha invece rischiato in proprio, forte dell’esperienza più che di ex deputato, di sindaco di Buenos Aires, che ha svolto per due mandati con pragmatismo. E con una famiglia di imprenditori nel mondo delle costruzioni alle spalle, che non gli perdonerà di aver scelto la politica, ma dove ha intanto coltivato l’intraprendenza in un Paese seduto, ciclicamente incerto e insicuro. Il nuovo presidente fu rapito poco più che trentenne nel 1991, e i suoi dovettero pagare un riscatto milionario in dollari per riaverlo. Già allora il cognome Macri, che rivela l’origine calabrese del padre Francesco nato a Roma (e il nonno Giorgio fu uno dei fondatori dell’Uomo Qualunque nel secondo dopoguerra), aveva perso l’accento finale sulla “i”, per essere pronunciato “Màcri”, da argentino fra gli argentini. Com’è l’intero percorso di Mauricio, dalla nascita l’8 febbraio 1959 a Tandil -quattro ore d’auto dalla capitale- alla laurea in ingegneria civile alla Pontificia università cattolica di Buenos Aires. Quattro i figli da due matrimoni.
Coi suoi quarantadue milioni d’abitanti (di cui la metà discende da italiani) in una superficie grande nove volte l’Italia, e perciò ricca di tutto ciò che la natura, il clima e le emigrazioni europee le hanno donato, l’Argentina è da tempo una potenza incompiuta e malata. La crisi economica che alla fine del 2001 portò all’insolvenza, rovinando una parte notevole della popolazione (e colpendo anche 450 mila risparmiatori italiani che avevano comprato obbligazioni argentine), e poi la corruzione dilagante della sua classe dirigente e la credibilità minata sul piano internazionale hanno a lungo impedito a Buenos Aires di riprendersi il ruolo guida dell’America latina. Kirchner marito e moglie pigiavano sul pedale del nazionalismo economico e della prepotenza politica anche contro la stampa, occhieggiando più alla sinistra ideologica del Venezuela, della Bolivia e in parte del Brasile, che non a quella riformista del Cile e del vicino Uruguay. L’arrivo di Mauricio Macri dovrebbe rovesciare questa prospettiva strabica per un Paese tanto orgoglioso e importante, che non può snobbare gli investimenti stranieri, né considerare gli Stati Uniti con acredine. “Debellare la povertà”, annuncia il presidente come primo obiettivo. Ma la novità argentina dovrebbe stimolare soprattutto l’Italia, che ha sempre avuto un rapporto preferenziale con la sua grande sorella sudamericana: e nessuno meglio di Papa Francesco, crocevia dei due mondi, lo testimonia. Eppure, nonostante la rivolta della folta comunità italiano-argentina, Cristina Kirchner ha lasciato sradicare e spostare la statua di Cristoforo Colombo da dietro il palazzo presidenziale della Casa Rosada, dove sorgeva da decenni. Oggi il navigatore genovese e del mondo s’è preso una bella rivincita.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma