Nella storia che già si racconta o forse, dato il tema, bisognerebbe dire sussurra, ancora mancano i ponti, luogo prediletto dagli agenti segreti, e gli inseguimenti da 007. Ma per il resto c’è poco da scherzare sulle rivelazioni di Wikileaks pubblicate dall’Espresso e Repubblica: il governo italiano è stato spiato dagli Stati Uniti per tre lunghi anni. Proprio quelli dell’ultimo esecutivo-Berlusconi dal 2008 al 2011, che la National Security Agency, cioè l’istituzione americana che assieme alle più celebri Cia ed Fbi si occupa della sicurezza nazionale, avrebbe seguito con l’attenzione degna del miglior nemico. Incredibile sorpresa, considerato il non irrilevante dettaglio che Italia e Stati Uniti fanno parte della stessa barricata occidentale. Che sono Paesi amici e alleati da sempre per la reciproca simpatia dei loro popoli e per le storiche ondate della nostra emigrazione. Per il condiviso interesse politico, economico, geografico e perfino militare dei due governi dall’Atlantico al Mediterraneo. Perché spiarci, allora? Che cosa c’era da sapere in quel modo subdolo sull’ascesa e caduta dell’allora presidente del Consiglio?
A chiederlo subito, e convocando l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma (mossa diplomatica decisa, ma opportuna), è il governo-Renzi di oggi, che non può tollerare un comportamento allo stesso tempo grave e ridicolo nei confronti della Repubblica italiana. Né accettare le prime spiegazioni Usa: “Sorvegliamo solo per validi motivi”. Neppure consola che lo scandalo sia di dimensioni planetarie: analoghe intercettazioni hanno subìto e a loro volta di recente scoperto e denunciato i governi tedesco e francese.
Ma al di là del perché, che dovrà essere chiarito con o senza la commissioni d’inchiesta che Forza Italia sollecita, resta la questione di principio: un Paese sovrano non può consentire a chicchessia, neanche al suo amico più caro al di là dell’Oceano, di guardare dal buco della serratura di palazzo Chigi. E poi all’America abbiamo appena dato il via libera all’uso dei droni armati e difensivi in Libia partendo dalla nostra base di Sigonella. Un nome che evoca altri tempi e vicenda, quando il premier dell’epoca, Bettino Craxi, impedì ai militari americani di sostituirsi ai carabinieri italiani. Accadeva nel 1985, e si sperava che quel braccio di ferro senza precedenti avesse insegnato alle parti il dovere di parlarsi negli occhi, non quello di appoggiare di nascosto l’orecchio alla cornetta quando l’altro parla al telefono.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi