Sinner, un pesce di nome Wada (e che vergogna)

Non c’è un solo abitante del globo terracqueo disposto a credere che Jannik Sinner, il più grande tennista del nostro tempo, di notte s’impomati di sostanze sportivamente proibite per battere i suoi avversari di giorno. Dopato e pure stupido sarebbe il ragazzo, perché la crema che nelle ore piccole si spalmerebbe sul corpo in gran segreto, è stata scoperta in dosi talmente infinitesimali, che non sarebbe servita neppure per alzare il dito medio della mano destra (pratica, peraltro, che dovrebbe imparare a esercitare almeno nei confronti dei suoi colleghi invidiosi; ma siamo certi che il Nostro, monumento anche di educazione, non lo farà).

Ciò che a un tribunale internazionale e indipendente è già risultato oltre ogni ragionevole dubbio, perfino grazie a immagini televisive che avallano il chiarimento definitivo, non basta a un pesce di nome Wada.

Perché solo a un pesce d’aprile può associarsi l’improvvida decisione dell’Agenzia mondiale anti-dopaggio (“World Anti-doping Agency”) di ricorrere al Tas -Tribunale arbitrale dello sport- a Losanna contro l’evidenza del niente. Quel niente, peraltro, che è già costato all’incolpevole Sinner la decurtazione di punti e premi, ingiusto pedaggio pagato al formale riconoscimento della sua estraneità dall’accusa. E’ stato assolto, per chi l’avesse dimenticato.

Come sanno anche le pietre, si deve ai massaggi senza guanti del suo allora fisioterapista, Giacomo Naldi, che s’era -lui sì- curato una ferita al dito col Trofodermin, farmaco non ammesso, se a Jannik hanno poi trovato tracce minime e irrilevanti del metabolizzato Clostebol nell’organismo.

Sulla leggerezza del fisioterapista in buona fede, fisioterapista che peraltro è un professionista apprezzato e di valore, non si discute. Non discute neppure la sua vittima, Sinner, che gli ha dato il benservito. Altra dimostrazione di mani e mente pulite: se i due avessero tramato nell’ombra, sarebbero complici. E un complice non si manda via, pena il rischio che parli e racconti la verità per vendicarsi dell’addio.

Ma qui non ci sono verità occulte da narrare. Qui c’è solo la sfortuna di aver inconsapevolmente assorbito, e non per sua richiesta né per altrui volontà, una sostanza che non si può. Un limpido errore, ma non da lui causato.

“Constatazione di assenza di colpa”, ha infatti sentenziato il tribunale.

Ora il pesce di nome Wada contesta la “constatazione di assenza di colpa o negligenza” e si appella al Tas contro quel tribunale internazionale. Inaudito: è la prima volta che succede nella storia degli sport. Chiedono, gli appellanti, di fermare il reprobo per 1 o 2 anni. Ma già precisando che, in caso di squalifica, non gli sottrarranno più nulla di quanto nel frattempo avrà conquistato.

Singolare atteggiamento che in politica verrebbe definito democristiano: da una parte sospetto un tuo imbroglio, dall’altra però già metto le mani in avanti e ti dico che comunque non ti toglierò il bottino ottenuto come imbroglione sotto giudizio. Siamo al punirlo, ma non troppo. Siamo al far demagogicamente vedere che la “legge è uguale per tutti” (ma quale legge, e chi sono quei “tutti” che si sarebbero trovati, potendolo dimostrare, nell’identica e innocente condizione di Jannik?), tuttavia con la coscienza istituzionale a posto, cioè non fino al punto da mettere in discussione ciò che il ragazzo avrà sudato sul campo. Bastone e carota: ma questo significa fare politica, non andare alla ricerca di una verità già accertata. Significa ostentare oggi una pseudo-inflessibilità stile “noi non guardiamo in faccia a nessuno”, dopo le pesanti accuse del passato di non essere intervenuti contro ben diversi e scandalosi casi di atleti da sanzionare.

Siamo al “break point” della giustizia sportiva, e gli amanti del tennis capiranno la metafora. Come inseguire il campione dei campioni -che sia questa l’inconfessabile colpa?-, con un’interpretazione cavillosa su una circostanza chiara come la luce del sole. Un’interpretazione da Azzeccagarbugli, tesa a colpire una responsabilità inesistente, come già sancito da un tribunale internazionale e indipendente, e soprattutto dalla nuda e cruda realtà dei fatti. Fatti incontrovertibili e documentati: perché, allora, continuare a tirare la corda, anzi, la rete di questa incredibile partita?

Lui, l’imputato senza fine (ci vorranno mesi, prima di chiudere la contesa), si dice “sorpreso e deluso”.

Noi, invece, che non abbiamo obblighi di formale cortesia nei confronti del pesce di nome Wada, preferiamo usare una sola parola, sperando che renda bene l’idea: vergogna.

Pubblicato sul quotidiano Alto Adige