Se la politica e il sindacato perdono il passo veloce del mondo che cambia

Rituali e litanie sono rimasti gli stessi, nella politica e nel Palazzo, ma nel frattempo l’Italia è molto cambiata. Se nella maggioranza hanno appena ricucito -“siamo diversi, ma coesi”, ha detto Giorgia Meloni- dopo una serie di dispetti tra Lega e Forza Italia col culmine del “paraculetto” rivolto all’indirizzo di Matteo Salvini, leader del partito di lotta e di governo (come accadeva pure con gli esecutivi di centrosinistra: gli alleati all’estremo sempre pronti a tirare la corda, vedi il caso da manuale di Fausto Bertinotti, presidente del Consiglio, Romano Prodi), nelle opposizioni le polemiche sono concentrate fra i Cinquestelle.

Riecco la faida dei cavilli tra l’ormai ex fondatore Beppe Grillo e il presidente Giuseppe Conte, fresco di vittoria dopo aver raccolto i consensi per un nuovo inizio del movimento, ma costretto dall’Elevato a ripetere le votazioni. Un po’ come quei bambini che giocano a pallone nel cortile di casa e chiedono di rifare l’azione a chi ha segnato il gol, perché la rete -parola magica tra i pentastellati- non vale.

Ma così come non sarà la baruffa grillina a stabilire se il campo largo col Pd ha un grande avvenire davanti o dietro le spalle, non saranno i malumori nel centrodestra a decretare la navigazione del governo.

Anche se i partiti faticano a rendersene conto, la stabilità di un grande Paese come l’Italia dipende, previo passaggio dalla bussola degli elettori, da tre cose: l’andamento dell’economia, le scelte in politica estera e il ruolo dell’Europa. Tre ambiti che, per ora e con il successo ottenuto di Raffaele Fitto alla vicepresidenza esecutiva della Commissione Ue, pongono il centrodestra al riparo dalle sue stesse ripicche o dalle contestazioni delle opposizioni sulla legge di bilancio. E comunque gli equilibri si rompono o ribaltano, se esiste un’alternativa. Ma neppure i sondaggi danno Elly Schlein più avanti di Giorgia Meloni, almeno oggi. Del doman, si sa, non c’è certezza.

Se poi a fare politica ci si mette pure il sindacato, proclamando una catena di scioperi inaugurata col blocco del trasporto pubblico, cioè punendo non già i “padroni” del servizio, bensì i loro utilizzatori, ossia tutti gli italiani, l’opposizione sociale al governo rischia l’effetto-boomerang.

Da tempo nel mondo globale e digitale s’è compreso che il lavoro non si difende più, come in passato, soltanto o soprattutto incrociando le braccia, manifestando in piazza o annunciando di voler “rivoltare il Paese come un guanto” (segretario della Cgil, Maurizio Landini, dixit).

A fronte della Volkswagen che chiude stabilimenti in Germania, ossia dell’inimmaginabile in Europa, davanti ai seri problemi che in Italia presentano la sanità, la scuola e lo stesso trasporto, dinnanzi al dovere di assicurare il diritto al lavoro a tutti, lo strumento obsoleto della contestazione sociale e ideologica non porta lontano.

La sfida moderna è come produrre meglio e di più, in che modo creare e distribuire maggiore ricchezza. Anche il sindacato, così come i partiti, sarebbe chiamato a restare al passo veloce del mondo che cambia.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova