Gli ingredienti per alimentare l’odio in Rete sono molti. Ma il primo e più forte è l’idea di essere anonimi, che incoraggia la viltà e cancella ogni timore per i possibili effetti degli insulti e delle calunnie. Poi c’è la percezione di agire in un mondo privo di regole: quale miglior incitamento per violarle? Infine il bel conforto dei “mi piace”, a prescindere dal fatto che spesso sono proprio i leoni da tastiera ad applaudire i loro consimili.
Ma anche a voler trovare una chiave di lettura per giustificare l’ingiustificabile catena di violenza virtuale-verbale che infesta il web, una vita continua a valere molto di più della libertà di odiare. E la vita della ristoratrice Giovanna Pedretti, che è stata trovata morta (l’ipotesi più accreditata è il suicidio), dopo essere stata investita da un’ondata di fango mediatico, impone alle Istituzioni almeno un paio di riflessioni: davvero non si può far niente contro il Far West in internet?
E ancora: c’è un modo per tutelare le tante Giovanna Pedretti, cioè persone che, al di là di come siano andate le cose sulle recensioni vere, presunte o desunte al suo ristorante e all’origine di tutto, non sono dello stesso e più accorto livello di chi, invece, sa come reagire quando il gioco -“gioco” per modo di dire- si fa duro?
L’impunità che corre sul web e l’abisso che divide milioni di dilettanti, spesso allo sbaraglio, da quelli che “influenzano” per professione, o che perlomeno sanno come districarsi fra le insidie, sono due rovesci della stessa medaglia. Perché se non si sanziona con rigore chi lede la dignità altrui e può contribuire a rovinare un’esistenza, e allo stesso tempo se non si introduce uno strumento a salvaguardia dei più deboli o poco pratici su come non soccombere all’intolleranza in Rete, ci ritroveremo molto presto a riproporre gli stessi interrogativi all’ombra di un’altra vita perduta.
C’è, dunque, nel digitale un altro capitolo da scrivere dopo quello sorto dalla nota vicenda di Chiara Ferragni e dei pandori, cioè di quale debba essere il confine fra beneficenza e pubblicità (con tanto di multa pesante dell’Antitrust e di scuse espresse dalla Ferragni), posto che nella comunicazione la credibilità è il valore che fa la differenza o la diffidenza.
Adesso anche il governo si sta muovendo per introdurre norme in un sistema dove regna l’anarchia. Invece, la massima e oggi mancante trasparenza dovrebbe diventare la principale garanzia per qualsivoglia forma di beneficenza. Trasparenza pure per ristabilire fra i cosiddetti influencer quella frontiera invalicabile, che i giornalisti ben conoscono, tra informazione e promozione pubblicitaria. Il pubblico deve poter sempre cogliere la differenza.
Ma ora governo e Parlamento dovrebbero intervenire su un problema ancor più urgente e diffuso: come arginare l’odio, la gogna, l’accanimento via social.
E’ già troppo tardi. Ma meglio tardi che mai.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova