La moda italiana nel mondo, ecco a che cosa si associa il nome e lo stile delle tre sorelle Fontana: Micol e le scomparse Zoe e Giovanna. Presidente dell’omonima Fondazione, Micol Fontana è nata a Traversetolo e ha novantadue anni. Compito della fondazione sorta nel ’94 è la tutela del patrimonio storico dell’alta moda italiana, conservando abiti, bozzetti originali, filmati e documentazione. Ma anche formando i giovani nel campo della moda.
Quel è il criterio per stabilire se una persona è ben vestita o no?
“Il più importante è che non sia appariscente. Questa forzatura va sempre a discapito dell’eleganza”.
Gli italiani sono appariscenti?
“Io non sono per l’ombelico di fuori. Quindi i giovani non se la cavano bene. E non lo dico perché ho gli anni che ho. Credo che il mio giudizio dipenda dal buongusto che ci hanno inculcato fin da ragazzine. La volgarità può fare conquiste, ma non è mai elegante. E comunque con la volgarità non si conquisterà mai una persona di buongusto”.
Ombelichi a parte, che voto dà al portamento degli italiani?
“Noi abbiamo molto, moltissimo gusto. Credo che sia stata proprio la nostra italianità ad averci fatto vincere la sfida del cosiddetto “made in Italy”. Volere o no, noi abbiamo avuto la fortuna d’essere nati in questo Paese. L’arte e le bellezze che abbiamo respirato e respiriamo, hanno finito per creare un buongusto innato. Io ho viaggiato moltissimo. Sono stata novantacinque volte solo negli Stati Uniti. Ma una donna italiana sono in grado di riconoscerla da come veste in qualunque parte del pianeta”.
Come veste?
“Con semplicità. E’ questa la chiave del successo della moda italiana. Perché abbiamo battuto i francesi? Mica è stata una lotta da poco, sa? Ma li abbiamo battuti perché noi amiamo la semplicità. Loro invece sono ricercati: un fiocchetto di qui, una cosa di là, loro aggiungono sempre. Pensi, invece, alla vita di lavoro che fanno gli americani. Hanno bisogno di una moda semplice, lineare. Per questo la moda italiana ha tanto successo anche da loro”.
Quando capì che si sarebbe dedicata alla moda, e non per moda?
“Da quando sono nata: mia madre è stata la nostra maestra. Il primo vestito di mamma è qui, nella Fondazione. E la mia nonna pure: famiglia di sarti, da sempre. Da bambina mi piaceva molto studiare. Avevo il desiderio di imparare. Ma non di imparare a cucire, perché ce l’avevo troppo a portata di mano; avevo il laboratorio in casa. Ero curiosa del mondo. E più ancora che del mondo, dell’umanità. Io vado in Cina e vado a vedere, naturalmente, la Grande Muraglia. Ma mi interessa guardare soprattutto la persona che vive in Cina”.
Perché avete vestito solo donne?
“In realtà non fu una scelta. Eravamo tre femmine -Zoe, Giovanna e la sottoscritta-, era normale. E poi mia madre, Amabile, e la mia nonna, Zeide. Nomi parmigiani”.
Ai tanti giovani stilisti che ambiscono, oggi, qual è il saggio suggerimento di Micol Fontana?
“Non è quasi possibile suggerire. Posso dire quello che penso. Levino la volgarità dei nostri giorni. Quel che vedo in giro, non mi fa sorridere: mi fa tristezza”.
Che cosa c’è di Parma nello stile delle sorelle Fontana?
“Io credo che ci sia un po’ tutto. Siamo veramente rimaste parmigiane. La musicalità, per esempio. Anche questo ha contribuito al nostro stile”.
Ormai da tanti anni lei vive a Roma. Che cosa le manca di Parma?
“Di andarci. Di andare a vedere i miei parenti, le mie amiche che ormai sono ben poche. Però io sto molto volentieri a Roma. Posso essere innamorata di Parma, ma non del suo clima (anche se il clima ultimamente è cambiato molto anche lì). Ma se penso alla neve che mi sono beccata…”.
Quant’è vissuta nella sua città?
“Fino all’età di vent’anni. Ininterrottamente”.
Che cosa ricorda in particolare di quella Parma, che cosa associa alla radice?
“Le biciclette. Gli operai che andavano a lavorare in bicicletta, al mattino, fischiettando. Mai ho sentito fischiettare una canzone: fischiettavano brani di opere. I muratori! Ricordo quel contatto umano. Quello è lo spirito di Parma. Parma ha delle risorse costruttive un po’ uniche, eh?”.
Quali sono i capricci della donna che viene da lei?
“In verità la donna accetta i consigli: non ha mai capricci, quando viene da me. Salvo forse uno, la paura di invecchiare. La paura d’essere brutta. Anche le più belle, tipo Elizabeth Taylor o Ava Gardner, si vedevano brutte”.
Se dovesse svelare il segreto della bellezza nella donna italiana?
“La sua personalità. Ha quasi una forza fisica. Dovrebbe sfruttare queste cose e non montarsi la testa”.
Lei ha vestito dive di mezzo mondo. La prima quale fu?
“Forse Linda Christian. Le abbiamo fatto il vestito da sposa nel ’49. Ne ricordo benissimo la dolcezza. Si percepiva che lei e Tyrone Power fossero molto innamorati. Diverso fu l’approccio con Elizabeth Taylor. Aveva il colore degli occhi viola. E voleva il vestito dello stesso colore. E io che le dicevo: ma io non posso andare col campione a comprare il tessuto: come faccio a girare coi tuoi occhi? Occhi così interessanti, peraltro, che non dovevano neanche “parlare”. Invece a Audrey Hepburn abbiamo fatto un vestito da sposa per un inglese che non ha mai sposato. L’ha lasciato qui, il vestito, e l’abbiamo regalato a una lavorante”.
La diva più “di casa”?
“Direi Ava Gardner. Era davvero alla mano. Provavamo i vestiti e poi Ava andava a casa mia a prepararmi la cena. “Sbrigati che si raffredda!”, mi telefonava appena era pronto. Devo dire la verità: le dive qui si scioglievano. E poi la mia prima cliente non fu una diva. Fu Gioia Marconi, la figlia del grande Guglielmo. E come amo ricordare, le pubbliche relazioni ce le faceva la portiera del palazzo, prima della guerra. Ma quando la guerra scoppiò, a Roma si cominciò a soffrire la fame. Per fortuna mio padre e mia madre vennero nella capitale e presero un piccolo podere a Prima Porta. E così non solo riuscivamo a mangiare, ma anche a scambiare le patate con la stoffa. E in questo modo abbiamo potuto arredare i saloni durante quegli anni durissimi. Tutto dobbiamo ai nostri genitori. Rappresentano proprio la radice, quello che resta”.
Anche suo padre s’interessava di sartoria?
“No, lui lavorava come costruttore. S’interessò alla Chiesa di Traversetolo, per esempio. Ma ci seguiva sempre”.
Torniamo alle dive che non erano propriamente dive. Tipo?
“Tipo Jacqueline Kennedy, forse la più impeccabile fra tutte. Era “naturalmente” elegante (un po’ come Sandra Torlonia, altra donna tra le mie preferite). Per noi Jacqueline fu una grossa sorpresa, anche quando ci invitarono alla Casa Bianca. Lei sceglieva sempre le cose più semplici della collezione. Le provava e le faceva vedere al marito, allora senatore. Se lui diceva sì, era sì. Altrimenti rinunciava. “Io esco con lui e devo piacere a lui”, spiegava. E poi ho fatto il vestito di sposa a Margaret Truman, figlia di un altro presidente americano. E per la Sukarno, moglie del presidente dell’Indonesia, abbiamo fatto il guardaroba. Così come per i Savoia, quand’erano i Savoia. Penso al vestito da sposa per Maria Pia”.
Che cosa ricorda di Umberto II, l’ultimo re d’Italia?
“Lo incontrai prima a Cascais, in esilio, e poi a New York. “Come me l’avete fatta bella, mia figlia”, ci diceva. E noi sorelle a lui: “No, maestà, non siamo state noi. L’abbiamo trovata bella”. Lui veniva in camera, mentre noi finivamo di vestirla, per darci, implacabilmente, il tempo: “Manca mezz’ora, mancano quindici minuti….Tutto era cronometrato per la cerimonia. Molto diversi erano gli incontri con Indro Montanelli, perché vestivo ed ero amica della moglie, Colette Rosselli. Bastava sentirlo parlare per ammutolirsi ad ascoltare. E poi Montanelli era proprio un gran birichino”.
Dive che sono invece rimaste spigolosamente dive?
“Ursula Andrews, donna irruenta. Probabilmente una di quelle con cui mi sono affiatata di meno”.
Come sarà la moda inverno/autunno 2006-2007?
“Ah no, mi rifiuto. Non li capisco… O meglio: non li voglio capire..”.
Se tornasse indietro che cosa cambierebbe o non rifarebbe della sua attività?
“Ci sono delle piccole cose che non farei più, però non importanti. In realtà tornerei a impegnarmi come mi sono impegnata. Ritengo di avere avuto una grazia speciale, facendo questo lavoro. Non lo cambierei. E viaggerei ancora molto. Cina, Giappone, America, Paesi arabi”.
Degli arabi che cosa l’è rimasto impresso nel campo della moda?
“Venivo a Dubai, dove avevo portato dei vestiti. L’appuntamento con gli interessati era presso un albergo favoloso. Ma sa a che ora? A mezzanotte! Mariti e mogli a vedere e a decidere i modelli da indossare da mezzanotte in poi”.
Sarà quello il mercato del futuro per il “made in Italy”?
“Io credo di no. Credo che il made in Italy possa affermarsi ovunque, e non soltanto in Asia. Il problema è che gli italiani dovrebbero amare quello che fanno. Invece sono dei timidi. E la timidezza non li aiuta a sfondare. Noi facciamo dei ricami che sono delle favole. Favole dalle mani d’oro! Se si curasse quest’aspetto, per esempio, non ci sarebbero concorrenti cinesi da temere. Essi possono produrre di più, non c’è dubbio. Ma produrre è una cosa, creare un’altra”.
Com’è l’Italia vista dai novant’anni?
“Amo troppo l’Italia per poterla giudicare. Non vorrei abitare in nessun altro Paese, e ne ho visti di Paesi…Penso che la nostra Nazione abbia delle risorse favolose. E Roma la trovo fantastica, perché cambia di ora in ora, secondo la luce e il momento. E’ troppo facile dire che Roma è la capitale del mondo”.
Pubblicato il 25 giugno 2006 sulla Gazzetta di Parma