Prima di diventare il soprano più acclamato al mondo, Anna Netrebko faceva le pulizie al teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Prima d’essere considerato tra i migliori tennisti italiani di sempre, Adriano Panatta era soltanto “il figlio di Ascenzio”, il papà-custode del Club Parioli a Roma: “Ascenzietto”, chiamavano quel giovane di umile famiglia.
Aveva, invece, un padre tranviere e una madre operaia l’universale Carla Fracci, che fu prima ballerina alla Scala di Milano e applaudita ovunque.
La vita straripa di esempi di ragazze e ragazzi che sono stati capaci di eccellere nonostante la modesta origine, le difficoltà economiche o familiari, la nascita o la formazione nei luoghi più dimenticati della Terra.
Eppure, ciò che ha consentito di emergere alla Netrebko, a Panatta, a Carla Fracci e ai tanti meno famosi, ma bravissimi che ciascuno di noi conosce, è che a un certo momento del loro percorso qualcuno ha riconosciuto il loro talento. Il “merito” è stato scoperto e premiato.
Il merito è il valore più democratico che una società possa contemplare, perché consente al figlio del custode e alla figlia del tranviere di poter affermarsi alla pari -anzi, con una marcia in più-, rispetto ai più fortunati figli di papà o di famiglie agiate. Oppure svogliati o meno interessati a far valere il proprio talento, posto che ogni persona del pianeta ne possiede almeno uno. Riconoscere il merito è il più giusto e trasparente esercizio di eguaglianza, perché consente di volare a chiunque “senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, come recita il bellissimo articolo 3 della nostra Costituzione.
Dunque, bene ha fatto a Padova lo storico Istituto di Istruzione Superiore Pietro Scalcerle (fondato nel 1869 grazie al lascito del combattente garibaldino a cui è intitolato) a riconoscere un diploma di merito e un bonus di pur simbolici 100 euro per gli allievi con la media del 9.
Ma ancor meglio ha fatto il dirigente scolastico, Giuseppe Sozzo, a difendere tale scelta dal coro di polemiche politiche, sindacali o scolastiche dal chiaro e vetusto sapore ideologico.
Come se incentivare i ragazzi all’impegno negli studi, fosse un modo subdolo per dimenticare “chi rimane indietro” -così si contesta- o come se la scuola pubblica dovesse cancellare il naturale desiderio di far bene che esiste dalla notte dei tempi in ogni ambito della vita, dal lavoro allo sport.
Riconoscere il merito è il più grande antidoto contro le raccomandazioni ed è uno stimolo per tutti a far meglio e di più. La pratica sessantottina del “6 politico” ha lasciato solo macerie. E poi sono passati quasi sessant’anni: è cambiato il mondo.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi