Raffaele Costa: “Io, il fustigatore della casta e dei suoi privilegi nella prima Repubblica, oggi vi dico che…”

Raffaele Costa è nato a Mondovì (Cuneo) e ha settantatré anni. Liberale da sempre (fu anche segretario del Pli nel biennio 93-94), è stato più volte ministro e sottosegretario, esercitando un ruolo da fustigatore della Pubblica amministrazione. Ha da poco concluso il mandato di presidente della Provincia di Cuneo, e i vertici nazionali del Pdl lo hanno nominato presidente dell’ufficio “Difensore del cittadino”. Deputato nazionale (e nel ’99 europeo) per oltre trent’anni, ha pubblicato diversi saggi contro gli sprechi, a cominciare da “Il dottore è fuori stanza”. Ha fondato ed è editore del periodico “Il Duemila”. 

 

Lei era considerato il ministro-fustigatore della Pubblica amministrazione nella prima Repubblica. Si sente padre putativo di Renato Brunetta, che è il ministro-fustigatore nella seconda?

“L’attitudine allo spreco e all’assenteismo è di natura trasversale, e ha toccato le più diverse amministrazioni di centro-sinistra e di centro-destra. Ma, col tempo, certi comportamenti hanno causato un’avversione sempre più forte nell’opinione pubblica, provocando anche la reazione dei dirigenti politici. Brunetta è perciò l’interprete di una situazione nuova e migliore che nel passato. Il merito è suo, ma agisce in un ambiente e in condizioni che stanno lentamente cambiando rispetto agli anni in cui operavo io”.

Ma che tipo di “figlio” è, l’attuale ministro: diligente o un po’ discolo?

“Definirlo “figlio” è eccessivo. Brunetta ha un’autonomia personale molto apprezzabile. Anche se la sua politica e la sua azione corrispondono a quello che ho sempre pensato sul comparto pubblico”.

Lui in che cosa può riuscire, dove lei invece non riuscii?

“Brunetta può riuscire perché ha le armi giuste per poterlo fare. E poi gode di una buona considerazione generale, e ha dalla sua anche una volontà politica abbastanza universale, da destra a sinistra, per cambiare musica”.

A quali armi si riferisce, in particolare?

“Alla possibilità di fare decreti per attuare le sue idee. Alla realtà di poter ottenere un largo consenso del Parlamento per applicare le sue misure. E soprattutto alla spinta degli italiani, al “tifo” dei cittadini che va in quella direzione”.

Dov’è che invece Brunetta può trovare ostacoli insidiosi, se non insormontabili? 

“Nell’eccesso di burocratizzazione. Vede, a partire dagli anni Cinquanta una serie di leggi ha strutturato in maniera viva, democratica ed europea il nostro Paese. Ma ciò ha comportato la crescita a dismisura della legislazione, e il moltiplicarsi di strutture. Per cui queste ultime cercheranno di difendere la propria esistenza a oltranza”.

Piccoli gruppi di potere crescono? 

“Altro che piccoli: grandi gruppi di potere. Gruppi che si sono incastrati e perciò incrostati in luoghi di riferimento nazionale, dai partiti ai sindacati. E il cui giudizio spesso si rivela determinante per poter agire in un certo modo”.

Sta dicendo che la politica non è in grado di decidere?

“Sul piano politico le decisioni si prendono. E’ invece sul piano pratico che ogni scelta diventa difficile. Perché occorrono tanti pareri, occorre adeguare le proprie valutazioni a un convincimento più ampio e così via. Credo che il ministro Roberto Calderoli abbia visto giusto nel tentativo di eliminare una selva di norme che complicano il momento decisionale della politica”.

Qual è, allora, l’”azione” più bella che lei si riconosce (col senno del poi)?

“I campi d’intervento su cui più mi esercitavo erano tre: sprechi, privilegi e assenteismo. A un certo punto s’era creata una situazione per cui anche grazie al mio modo di fare (ripeto: “anche”) cominciò a svilupparsi un’azione, chiamiamola, moralizzatrice. Ricordo perfettamente quando, nel 1981, nominato sottosegretario agli Esteri, rimasi sconcertato per una scoperta: molti dipendenti della Farnesina non rispettavano l’orario di lavoro. Altri venivano in ufficio per leggere i giornali. Altri ancora si limitavano a scrivere un paio di lettere al mese. Feci un ordine di servizio contro questa situazione che ritenevo insostenibile”.

Che cosa “impartì”?

“Semplice: introdussi l’obbligo di una forma di entrata e di uscita per conteggiare la presenza non solo dei commessi, ma anche degli ambasciatori. Alcuni diplomatici di grande prestigio vennero subito da me, minacciando dimissioni che nessuno diede. Dopo un mese di proteste, l’ottanta per cento dei dipendenti cominciava a rispettare le sei ore giornaliere. Poi da sottosegretario agli Interni mi comportai allo stesso modo. Sa chi fu l’unico a protestare? Il povero titolare di un grande bar, che venne a esprimermi tutto il suo cordoglio per i mancati incassi”.

Già, i ministeri, la sua “bestia nera”. Ma nera quanto?

“Nel ’91, quindi diciotto anni fa!, il mio giornale “Duemila” fece un numero speciale titolato -ancora lo ricordo a memoria- “Ministeri e dintorni”. Prendevamo a bersaglio la Roma burocratica, con i dipendenti statali a passeggio in orario d’ufficio. Più di mille e quattrocento fotografie scattate -di cui trecento pubblicate- dopo tanti appostamenti. Una denuncia provata e circostanziata sulle pause-caffè che duravano pure un’ora. Devo dire che da allora, piano piano, si sono avuti miglioramenti. In quasi tutte le strutture pubbliche oggi vigono sistemi elettronici per controllare le presenze. Ma ci sono voluti quasi vent’anni prima che arrivasse il segnale forte del governo e di Brunetta”.

Qual è stata, invece, la sconfitta che ancora non le va giù?

“Forse la difficile, ma necessaria armonia da costruire fra opinione pubblica, pubblica amministrazione e legislazione. Non parlerei di sconfitta, bensì di punto debole. Per poter davvero cambiare le cose, quel triangolo -legge, cittadino, Stato- deve funzionare al meglio. E non sempre funzionò”.

Ma i fannulloni sono il peso morto della pubblica amministrazione o il capro espiatorio, ormai, di altri e più gravi mali?

“Non sono né un peso morto né un capro espiatorio, ma una parentesi durata qualche decennio. Una parentesi che si va attenuando, anche per una nuova sensibilità che ieri non c’era. E che oggi sta contagiando tutti, sindacati compresi”.

In che modo lo Stato potrebbe realmente risparmiare un bel po’ di pubblico denaro?

“Mi permetto di suggerire l’uovo di Colombo: lo Stato risparmierebbe con controlli adeguati e non solo formali o burocratici. Controlli amministrativi nel senso pieno della parola”.

Perché non si riesce a sradicare lo sconcio delle auto-blu?

“Perché pesa l’abitudine. La malsana abitudine di non distinguere più il lecito dall’illecito, cioè l’uso dell’auto anche nei momenti in cui non lo si dovrebbe fare. E’ una pessima abitudine che va avanti da almeno trent’anni. Queste auto sono ormai migliaia e scorrono ovunque. Bisogna essere ortodossi nel separare l’uso per la funzione pubblica dall’utilizzo per l’attività privata”.

Perché non si riesce a cambiare un altro sconcio, quello dell’Italia istituzionale a due velocità: le cinque e privilegiate regioni a statuto speciale da una parte e le altre quindici “ordinarie” che pedalano?

“Questo è un tema che non è stato ancora toccato, effettivamente, in maniera idonea. Alcune regioni godono di benefici notevoli rispetto alle altre, che sono, oltretutto, in maggioranza. Sa perché questo argomento non lo si prende di petto? Perché centro-destra e centro-sinistra possiedono ciascuna una quota di queste “specialità”. Ma è una disparità fra regioni del tutto ingiustificata. Bisogna acquisire una nuova sensibilità in materia, infischiandosene di qualche voto che inevitabilmente finirà per essere perso”.

Il federalismo unirà o separerà ancor di più il Nord dal Sud?

“Dipende da come sarà attuato. Se in maniera coraggiosa e non punitiva, potrà essere utile. Non dovrà trasformarsi in uno scontro tra aree del Paese ricche e meno ricche”.

Lei è stato anche presidente della Provincia di Cuneo. Da amministratore locale, Roma quant’è lontana?

“Per fortuna è più vicina Torino. Il centro deve acquisire coscienza d’essere un fondamentale momento di unità, non di privilegio”.

Efficienza nei servizi: come introdurre e far valere il principio di responsabilità?

“Attraverso valutazioni all’interno della pubblica amministrazione di cui uno fa parte. Attraverso funzioni ben delineate a livello generale e nel Paese. Ma non sempre si riesce, anche perché le responsabilità sono legate alle leggi, che sovente si sommano, semplicemente, anziché rappresentare una sintesi unitaria”.

Ma la sua ricetta qual è?

“Parlo col senso del privato, e parlo da liberale. Nella pubblica amministrazione bisogna fare come ciascuno di noi farebbe a casa propria, con la propria famiglia: agire con oculatezza. Come un buon amministratore di condominio”.

Il Piemonte che cosa può insegnare al resto d’Italia?

“Esistono settori in cui il rapporto fra l’industria e l’economia in generale è molto costruttivo tra pubblico e privato. La relazione della società col mondo imprenditoriale e occupazionale è positiva, ed è migliorata. Naturalmente, anche da noi c’è assistenzialismo, come in tutto il Paese. Però in misura relativamente ridotta”.

Quale sarà il segnale per cui un giorno potremo dire che nella Pubblica amministrazione c’è stata, finalmente, la rivoluzione?

“Quando avremo un provvedimento, non specifico, che consenta l’applicazione del seguente principio: premiare coloro che hanno fatto una buona gestione della Pubblica amministrazione e del denaro di tutti i cittadini. Oggi il consenso elettorale spesso nasce, al contrario, dalla spesa esorbitante. Quando, invece, la gente darà il voto a chi ha speso meglio, di meno e in modo giustificato, allora sarà stata la rivoluzione”.

Pubblicato il 6 settembre 2009 sulla Gazzetta di Parma