Quando un giornalista o scrittore di altre parti d’Italia va in Alto Adige per la prima volta e racconta, di solito prevale in lui l’indignazione per i privilegi e le ingiustizie dell’autonomia: com’è possibile che la minoritaria comunità di lingua italiana sia discriminata dalla proporzionale etnica, cioè dalla riserva separatista dei posti pubblici ai gruppi linguistici, a cominciare dal tedesco super-prevalente? Poi, già nel viaggio successivo, la posizione dell’osservatore come d’incanto di solito si capovolge: dall’indignazione per le vittime si passa alla riprovazione per le vittime. Eh sì, in fondo gli italiani se la sono cercata. Pagano oggi il torto di ieri, del fascismo che italianizzò. Ma rispetto ai quindici e lontani anni di italianizzazione, che vanno dal fascismo diventato regime fino alla guerra (seguiti dal biennio anti-italiano di occupazione nazista dell’Alto Adige dal 1943), è cambiato tutto. Sono passati settant’anni di Repubblica libera e democratica: quattro volte e mezzo il periodo della precedente italianizzazione. Dalla notte dei tempi la Repubblica ha trasformato la minoranza di lingua tedesca nella più tutelata al mondo. Al punto che il governatore Arno Kompatscher (Svp), ha potuto tranquillamente rifiutarsi d’esporre il Tricolore per i cent’anni della Grande Guerra. E solo il Quirinale ha risposto a quell’avvilente e grave schiaffo istituzionale.
Esce al momento giusto, allora, il libro di Sebastiano Vassalli (Il confine, i cento anni del Sudtirolo, Rizzoli). Ma rispecchia proprio il modello dell’indignato speciale che prima dice e poi si contraddice. La prima volta Vassalli pubblicò -e non poteva non citarsi-, “Sangue e suolo” (1985). Un testo durissimo, anche nel tono, che denunciava come andassero le cose a danno degli italiani di lingua italiana, quasi stranieri in patria. Adesso, nell’encomiabile intento di andare oltre ogni incomprensione (ma lui usa la parola “odio”, e per alcuni tragici eventi del passato è la parola giusta), lo scrittore spesso ripropone argomenti e punti di vista arcinoti e tipici della pubblicistica e dell’interpretazione tirolese della storia altoatesina. Niente di male, ma non è la bocca della verità. Specie se si dichiara con invidiabile modestia di voler raccontare questa storia agli italiani, “che hanno sempre saputo poco, e, peggio: hanno sempre capito poco. E’ ora che qualcuno provi a spiegargliela”. Peccato, perché è invece nell’approccio inter-etnico, è nell’intuizione bilingue di Alexander Langer che passa il futuro dell’Alto Adige cent’anni dopo: la felice mescolanza delle due culture italiana e tedesca. Vassalli lo sa e lo scrive, ma si sente che non è Langer il suo sognatore di riferimento. Tra le fonti lo scrittore cita ben quattro volte il Manuale dell’Alto Adige, che è, nientemeno, il libretto ufficiale della Provincia “autonoma” di Bolzano. E poi, quanti luoghi comuni, come quello contro il Monumento alla Vittoria. Monumento che invece è stato da poco restaurato e reso interessantissimo percorso museale grazie a un’intesa inedita Stato, Provincia e Comune. Ecco che significa quella “memoria condivisa” che l’autore insegue, ma non coglie appieno: gli altoatesini d’ogni lingua che fanno la fila per riscoprire la loro storia.
Ma la vera sorpresa è lo scrittore che difende l’architrave di quell’autonomia che proprio lui aveva demolito nel 1985: “Ora penso che la proporzionale etnica fosse l’unico modo per raddrizzare le enormi ingiustizie del passato, e che sia giusto applicarla dandosi però una scadenza: altrimenti si finirà per creare una società malata”. La proporzionale è in vigore e rigore da quarantatré anni, quasi la metà dell’intera storia italiana dell’Alto Adige. Un muro quotidiano, non un ponte immaginario al “confine”.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma