Passano i giorni, ma neanche a mente fredda si riesce a trovare una risposta al perché del delitto a Paderno Dugnano, nel milanese, nella notte di passaggio da agosto a settembre: che cosa può aver indotto un ragazzo di 17 anni a uccidere il fratellino di 12 mentre dormiva, e poi la madre e infine il padre? Quale demone può aver tormentato, e tanto a lungo e nel profondo, il reo confesso e neppure maggiorenne al punto da spingerlo a far fuori l’intera sua famiglia a coltellate?
“Non c’è alcun movente”, ripetono gli investigatori che hanno ascoltato le parole del giovane omicida con la stessa incredulità che noi ancora proviamo nel rileggerle.
Ma se della famiglia, di cui per rispetto preferiamo non ricordare il nome, resta solo colui che l’ha ammazzata con ferocia, e che agli inquirenti ha detto tra le lacrime che si sentiva solo, che “voleva farlo”, e che “ci pensava da un po’”, una spiegazione bisognerà pur cercarla. Che non sarà giuridica -a ciò si dedicherà il processo con le già immaginabili perizie e controperizie-, né sociologica, visto che non tutti gli infiniti e umani conflitti tra figli e genitori e tra fratelli si risolvono a coltellate per fortuna della società e del mondo. Sarà una spiegazione realistica.
Senza pretese di verità, tentiamo di scavare nelle relazioni familiari e nei rapporti di vita così come li vediamo ogni giorno. Non sarà difficile convenire sulla crescente incomunicabilità tra padri e figli, che pure mai nella storia hanno avuto migliori mezzi per comunicare.
Ma il tablet e il telefonino, che in realtà sono strumenti individuali sublimati dal selfie, l’autoscatto che incorona l’“io sono” a colori, hanno da tempo preso il posto dei dialoghi più naturali tra chi si vuol bene. Perfino della più banale domanda che i genitori dovrebbero porre ai figli quando li rivedono a cena, come ha osservato lo psichiatra Paolo Crepet, che banale non lo è mai: “Come stai?”. “E se lo chiedono, quante volte ascoltano la risposta?”, aggiunge, desolato, Crepet.
Intendiamoci, il naufragio della famiglia non è colpa della svolta digitale.
Ma se il tablet fa le veci del padre o del fratello per ragazzi divorati dalla solitudine e dall’ansia dell’apparire, nient’altro che apparire, ecco che segnala il problema. Come un termometro, ci dice che c’è febbre in una famiglia di fatto inesistente, e in una scuola che non si prende la responsabilità di cogliere quel malessere.
Non tutti i disagi, ci mancherebbe, finiscono a coltellate. Non tutti i ragazzi tablet-dipendenti ruotano come satelliti nell’universo dell’incomunicabilità. Guai a generalizzare o esagerare nel tentativo di spiegare l’inspiegabile strage, frutto di un disagio cosmico e forse patologico. Ma ci sono diversi altri e pur minori disagi giovanili che potrebbero essere risolti o quantomeno riconosciuti, se la famiglia e la scuola ritrovassero la consapevolezza e l’autorevolezza di quel che non sono più.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova