Mancava solo il giallo estivo di governo. A lanciare l’allarme contro una presunta manina che avrebbe aggiunto, nottetempo, l’indicazione di ottomila posti di lavoro in meno nella relazione tecnica sul decreto-legge “dignità” inviato al Quirinale per la firma, è il ministro competente in persona. “Questo decreto ha contro lobby di tutti i tipi”, ha denunciato Luigi Di Maio, spiegando che né lui né i suoi colleghi hanno inserito quei numeri della discordia. A stretto giro è arrivata la replica del dicastero dell’Economia: nessuna manomissione, i dati erano già contenuti nel testo. E allora, chi è stato, e perché l’ha fatto?
Ma il mistero, in attesa di vederlo svelato, fotografa bene un atteggiamento politico che, quand’è in gioco l’economia, un esecutivo non dovrebbe assecondare. Ricorrere alla dietrologia, che di tutte le scienze è l’unica fasulla, forse con ciò sperando d’avere una risposta su questioni controverse, non porta da nessuna parte. Prospettare il “che cosa c’è dietro?”, evocando complotti, è l’esatto contrario dell’assumere le proprie responsabilità sulle scelte strategiche per l’Italia. Dal lavoro alle grandi opere, dallo sviluppo tecnologico a tutte quelle innovazioni necessarie per restare da protagonisti nel mondo che corre: prendersi la responsabilità di decidere, solo questa è la soluzione di ogni rebus. Soprattutto se le novità in ballo rappresentano impegni sottoscritti da tempo e da ogni precedente governo. Non poteva, del resto, prevedersi alcuna “ideologia del dispetto”, a destra o a sinistra, contro la prospettiva elementare di una rete infrastrutturale più moderna, rapida e integrata fra le popolazioni e le nazioni del nostro continente.
Invece, per non venir meno alla vecchia -in tutti i sensi-, battaglia contro la Tav da parte dei Cinque Stelle, ora s’ipotizzano perfino calcoli delle penali nell’eventualità di rescissione dei contratti firmati. Come se potesse diventare un buon affare politico ed economico pagare per tornare indietro, anziché investire per andare avanti.
Certo, nessun’opera è immune da critiche, né immaginabile come un monumento intoccabile per l’eternità. Ma una cosa è migliorare progetti in corso con ragionevolezza e buonsenso. Altra è seminare il futuro di dubbi e di incertezze.
Anche il “governo del cambiamento” è chiamato a decidere se l’Italia deve restare o uscire dall’Europa in cammino.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi