L’uomo che ha dato la voce a Michael Douglas, Jack Nicholson e Robert De Niro -ne “Il padrino-Parte II”-, ha deciso di far parlare anche William Shakespeare. Succede nell’anno celebrativo dei quattrocentocinquant’anni della nascita a Stratford-upon-Avon in aprile (pare il 23; certo è solo il suo giorno di battesimo, il 26), del più grande drammaturgo, poeta e scrittore in lingua inglese. Succede che l’attore e doppiatore romano Pino Colizzi stia facendo riscoprire la sua traduzione in italiano -ma in endecasillabi rimati- dei 154 Sonetti del William più noto dell’universo. Lo fa con incontri nei licei (l’ultimo al Visconti della capitale) e nelle biblioteche per i giovani.
A fargli conoscere da vicino, anni fa, i Sonetti di quello che ormai considera un caro amico (“Shakespeare potrei addirittura sognarlo”, rivela), fu il linguista e tra i massimi critici dell’opera letteraria, Agostino Lombardo, scomparso nel 2005. Gli disse di non fermarsi al ritratto che di solito gli accademici fanno dei classici, per cui tutti crediamo di sapere tutto dell’autore di Amleto, Romeo e Giulietta, Re Lear, dell’”essere o non essere” e via semplificando. Invece, scavando nella lingua inglese come soltanto un buon conoscitore della lingua italiana può fare, arriva la sorpresa: se gli inglesi non s’offendono -ma certo che no!-, ecco a voi “Shakespeare l’italiano”.
“Agostino Lombardo mi fece notare l’italianità dei Sonetti”, racconta Colizzi. “Anche le tragedie lui le aveva sentite scritte in italiano con lingua inglese, e questo aveva reso le sue traduzioni “nostre” in modo naturale”. Forse solo un direttore di doppiaggio, cresciuto in quell’arte di dizione che va sempre alla ricerca anche del suono e del ritmo che nella nostra bella lingua deve imprimersi dalla versione originale, poteva cogliere il tesoro nascosto della traduzione a rima. Per esempio l’inizio del Sonetto 50, così reso in italiano nella pubblicazione di Colizzi (Società editrice Dante Alighieri): “How heavy do I journey on the way, When what I seek, my weary travel’s end, doth teach that ease and that repose to say: “Thus far the miles are measur’d from thy friend”. “Com’è pesante il viaggio in questa via, perché l’arrivo sarà triste adesso; diran, riposo, quiete e nostalgia: “tra te e il tuo amico, quante miglia hai messo”.
Spiega l’autore: “Non è vero che la lingua italiana non possa sintetizzare i sentimenti così come li sintetizza l’inglese. Anzi, talvolta li rende persino meglio. La mia missione tra gli studenti e i giovani è far capire che la poesia che loro hanno letto, è come la melodia di una canzone”. Ma che differenza c’è tra il “doppiare” Michael Douglas e i Sonetti di Shakespeare? Colizzi sorride, ma risponde serio al gioco: “La differenza è nell’ispirazione. Non esiste un ottimo doppiatore, se non c’è un bravo suggeritore, ossia l’attore che si fa doppiare. Nel caso di Shakespeare chissà quali suggerimenti avrei potuto avere…Ma io so, come lui sapeva, che questi Sonetti avranno una loro vita in futuro. Non li ha scritti né su commissione né tutti insieme, ma durante la stesura delle commedie. Li ha scritti così come gli venivano. E’ da pazzi pensare, oggi, di metterli in ordine. Lui fu un artista geniale e sconvolgente con tutti i suoi corto-circuiti emotivi. L’ordine-disordine nel quale i brani si succedono, segue bene la nascita e lo sviluppo di un amore: dal corteggiamento alla conquista”. Dunque, per Shakespeare vale la libertà, che fa a sua volta rima, o quasi, con italianità: “Si pensi alle straordinarie ambientazioni italiane di uno scrittore che, a differenza di Goethe, non so nemmeno se sia mai stato in Italia. Oppure si pensi a Romeo e Giulietta, ragazzi che vivono come tanti nostri figli. Anche a prescindere da quanto conoscesse Ovidio, Lucrezio e soprattutto Petrarca, Shakespeare ha colto alla perfezione il modo di sentire italiano”.
Dell’”amico” lontano a cui si dedica da anni, così conclude: “Chi traduce poesia, deve trovare il coraggio di far rinascere, anche a discapito della precisione, l’emozione che ha ispirato quel suo fratello di altro idioma, di altra cultura e persino di altra epoca. Guai a perdere il suono italiano che si gode in inglese”.
Qui Italia 2014, qui Inghilterra 1564: parla la voce di William.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi