Che brutta partita, che arbitraggio scandaloso. Non si vince così, non si perde così. Eppure, quando gli Azzurri e la Celeste, di bianco vestita, entrano in campo, e dall’elmo di Scipio si passa alla “¡libertad o con gloria morir!”, e i calciatori delle due Nazionali si danno la mano prima della battaglia, è come se io vedessi, guardando quelle ventidue magliette, tutti i colori del cielo quando splende. Da una parte la tenera magia della terra uruguaiana in cui sono nato e cresciuto (da madre uruguaya). Dall’altra il dolce richiamo alla patria italiana in cui mi sono formato, dove vivo da quarantun anni e che so già che un giorno anch’io dovrò “passare” -come un pallone d’amore ricevuto da mio padre che era di Mantova-, ai miei figli che sono italiani.
Per chi tifare, allora? Posso io scegliere, nell’ora della verità, fra il tiki taka del mate amaro e il catenaccio del caffè ristretto? Tra la grinta uruguaiana (la celebre “garra” di chi non molla mai, e a Natal s’è visto) e il talento italiano di chi inventa sempre, ma a Natal non s’è visto? Posso io preferire l’epopea di Maracanà alle leggende di Madrid e di Berlino? Oppure il tango di Gardel al mito di Garibaldi, eroe tricolore dei due mondi che non per caso combatté, vittorioso, anche per l’indipendenza dell’Uruguay, dov’è ancora oggi onorato? “Maestro” è il soprannome che hanno affibbiato sia a Tabárez, sia a Pirlo. Tutto torna fra Italia e Uruguay, nazioni gemelle che l’Oceano non ha separato, ma unito anche nel calcio. Altrimenti, perché tredici calciatori della Nazionale uruguaya giocano o hanno giocato in serie A, dopo che le glorie Schiaffino e Ghiggia -anni Cinquanta- inaugurano la serie delle due patrie un solo cuore, indossando sia la Celeste, sia la maglia azzurra?
Per chi conta in spagnolo e canta in italiano, per chi vede in Papa Francesco la sintesi controcorrente delle divine e birichine identità latino-americana e italiana mescolate insieme e moltiplicate per milioni di sogni, l’unico rimpianto è che Italia-Uruguay non sia stata all’altezza della sua grandezza. Peggio, una partita al di sotto di qualunque aspettativa sportiva. Sarebbe stata una bellissima finale del torneo: quinta stella per l’Italia (tiè, Brasile) oppure terza stella per l’Uruguay (ritiè, Argentina). In quel caso sarei stato vincitore senza vinti, chiunque avesse vinto. Perché a volte la felicità è l’incrocio un po’ anarchico fra l’anima e il cuore, fra le radici e la capacità di innaffiarle anche con un’altra cultura, lingua e bellezza, fra quel che si è per sempre (“¡vamos Uruguay!”) e quel che si diventa vivendo, viaggiando, incontrando: “Fratelli d’Italia”. Ma ieri non ero felice, alla fine. Quel cartellino rosso ha rovinato non solo la gioia per la Celeste che forse ritroverà il Brasile, sessantacinque anni dopo, ma anche la verità sugli Azzurri: se l’Uruguay non ha giocato bene, l’Italia ha giocato male. E chi ama quelle due patrie, ama anche vincere bene, e non vincere facile.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma