Buongiorno e grazie per l’invito che mi onora. Lasciatemi dire che non mi sento ospite: quando si parla di lingua italiana, io mi sento in famiglia ovunque, figuriamoci nel vostro tempio che dà futuro alla memoria.
Ho scoperto l’importanza dell’Accademia della Crusca grazie a Indro Montanelli, Maestro indimenticabile che a lungo mi formò come giornalista del suo “il Giornale”, e dalle cui colonne promosse una sottoscrizione per sostenere la vostra e nostra istituzione in gravi difficoltà economiche, allora. Correva l’anno 1990 o giù di lì.
Fu per me un doppio insegnamento: quando il potere pubblico e la politica se ne infischiano, spetta ai privati cittadini mobilitarsi per una buona causa. Seconda lezione: per chi ama l’Italia, non esiste causa più bella che sostenere la bella lingua.
Bella in senso etico prima ancora che estetico. Quando di qualcuno diciamo che quello o quella è una “bella persona”, non lo diciamo perché somiglia a Belén, a Monica Bellucci o a Raoul Bova. Lo diciamo per quello che esprime, per la nobiltà d’animo, per l’esempio che può offrire.
La lingua italiana è come una bella persona alla portata di tutti: l’anima di quello che siamo, un’antica sinfonia che emoziona il moderno cuore del mondo. “L’italiano è la lingua più musicale di tutte”, spiegò una volta il tenore spagnolo José Carreras. Aveva ragione: la nostra bandiera e il nostro canto sono le vocali alla fine delle parole.
Dunque, ho letto con particolare attenzione il vostro “Sbagliando s’impari” e lo considero interessante, utile e pure divertente, il che non guasta.
Ma io non sono qui per elogiare, bensì per contribuire, se vi riesco, ad arricchire le riflessioni nel vostro volume.
E perciò mi voglio concentrare su quel che forse può valorizzare la nostra lingua italiana e universale. Valorizzare, non difendere: l’italiano non ha bisogno di difensori. Ha bisogno di essere amato.
Parto con un significativo lapsus freudiano nel libro.
Nella “guida alla lettura” già alle prime righe si specifica che “sono in corsivo le forme latine e greche e le parole straniere non acclimatate in italiano”. Questo significa che gli anglicismi acclimatati non figureranno in corsivo, a differenza del latino, che pure è l’adorabile mamma dell’italiano.
Ma io lapsus mai lo scriverò in corsivo: lo reputo acclimatato. Neppure tabula rasa, post scriptum, vexata quaestio o le numerose espressioni che ancora oggi comunicano e ci ricordano da dove veniamo.
Invece lockdown, parola che mi vanto di non aver mai usato nei tanti editoriali che ho scritto in epoca Covid, il libro lo considererebbe acclimatato.
Due pesi e due misure che purtroppo non sono casuali anche se -ne sono certo-, non sono voluti. Ma siamo così bombardati dalla globalizzazione del linguaggio che, paradossalmente, finiamo per considerare più straniero il latino delle stesse lingue straniere.
Ma l’italiano è o non è più una lingua neolatina? Se continua a esserlo, al pari dello spagnolo, del francese, del portoghese e del romeno, in corsivo va lockdown e non lapsus.
Da giornalista ho apprezzato il vivace capitoletto dedicato alle maiuscole e alle minuscole. Quando nel 1985 vinsi il concorso dell’Istituto per la Formazione al Giornalismo di Milano, uno dei primi aneddoti che si raccontavano, riguardava un precedente direttore di quell’Istituto.
Il quale direttore ai giornalisti in erba ripeteva: “Solo Dio va con la maiuscola”. Un grido di dolore contro l’abuso delle maiuscole. Solo il Padreterno ne era esentato.
I tempi sono cambiati e oggi con la maiuscola si vuole non più corrispondere più o meno a una regola o a un uso corrente, ma spesso e solo ostentare ideologia.
Mi chiedo, per esempio, perché Islam e Allah figurino sempre con la maiuscola e cristianesimo e dio spesso con la minuscola. Per esibire laicismo non c’è bisogno di ridurre il Papa a un papà senza l’accento.
Per Paese io uso la maiuscola anche per non confonderlo col paesino, a differenza dello spagnolo (io sono nato e cresciuto fino a 13 anni a Montevideo, in Uruguay, figlio di mamma uruguaiana e papà mantovano), dove “país” figura sempre con la minuscola.
Insomma, qualche regoletta non sarebbe male, per evitare che la lingua italiana diventi un tiro al bersaglio ideologico tra Papa e papà. Tra i sinistri all’ombra del Paese e i destri sotto i riflettori della Nazione. Paese e Nazione: se riferiti all’Italia, io li metto entrambi con la maiuscola. A volte, ma volte calcolate, patria lo scrivo apposta con la minuscola. Ma solo per renderla ancora più evidente, non per evitare la retorica che, depurata dagli orpelli, è pur sempre un’arte del dire. E un giornalista vive di parole.
Infine, il tema di fondo che più mi ha colpito del vostro libro. Pagina dopo pagina, prevale di gran lunga la luce verde concessa anche alle più svariate, bizzarre e perfino controverse espressioni. La luce rossa s’accende soltanto un paio di volte. Ne ricordo una, guai a dire “più migliore”, e vorrei vedere.
Ma di solito l’approccio del testo non è saggiamente liberale, ma generosamente libertario. Cito dal volume: “Entrambe le formazioni sono corrette”, “la preferenza va per”, “si usa nel parlato”, “è consigliabile”, “di norma si usa”, “uso popolare”, “uso regionale” e così via.
Mi pare che il tentativo sia di giustificare, accogliere, avallare più o meno tutto, tranne il “più migliore e più peggiore no”. E’ l’unico “no”, forte e chiaro, che ho trovato scolpito fra le vostre indicazioni.
Per formazione personale e professionale io sarei stato per qualche matita rossa e blu, e non per tradizionalismo. Matitine colorate nel senso che non credo che tutto ciò che scorre italianamente nella Rete sia da accreditare solo perché scorre, “panta rei”, dicevano i filosofi.
Ma allora salto anch’io sul carro libertario del libero italiano in libero Stato (anzi, in libero mondo, perché la lingua di Dante è un patrimonio dell’umanità) e vi domando: se ogni fonte è considerata attendibile per attestare l’italiano, dai dizionari, ovviamente, a google, alla vox populi -non in corsivo- agli “occasionalismi”, cito testualmente, perché non può essere l’autorevolezza dell’Accademia della Crusca a creare neologismi o adattamenti in italiano dal ciclone degli anglicismi che da tempo ci ha investiti e drogati? Tutte le lingue neolatine lo fanno, tutte: spagnolo, francese, portoghese e romeno. Siamo forse figli di un Dio minore, e Dio scritto con la maiuscola?
Mi limito a un solo esempio per rendere bene l’idea. Perché non rilanciare governanza al posto del “governance” ripetuto come pappagalli da politici orecchianti e mai cosmopoliti? “Gobernanza” esiste già in spagnolo.
Se l’Accademia precisasse nelle sue opere e riviste che “governanza” sarebbe ben più chiaro e in armonia con l’italiano di “governance”, l’attestazione risulterebbe più affidabile, credibile e utilizzabile delle voci inventate o circolanti via Rete e ripescate, e attestate senza troppi perché. E non si dica che “governanza” suonerebbe antiquato o che non racchiuderebbe in sé quell’aspetto internazionale evocato in “governance”. Perché quest’approccio rivelerebbe un complesso di sudditanza: quel che viene dall’America sarebbe di per sé intrinsecamente più comunicativo, lasciato così com’è in inglese nell’italiano, dell’espressione italiana storicamente attestata, e che peraltro è già in uso nella Svizzera italiana.
Sarebbe il colmo, se noi per primi disconoscessimo l’universalità della nostra storia e, per di più, se la disconoscessimo proprio in casa nostra. Far rivivere le forme italiane è “più migliore” -per prenderci bonariamente in giro-, che seppellirci sotto l’erba del vicino, che non è più verde della nostra. Basta con questa tiritera: la povertà linguistica di “governance” in italiano non può valere per chi ha il tesoro della governanza.
Dico governanza per farmi capire, ma c’è l’imbarazzo della scelta.
Da italo-latino-americano mi addolora leggere ogni volta richieste di “password”, vocabolo che in spagnolo non s’usa mai. “Contraseña”, “clave”, “acceso”, tutti termini che abbondano anche in italiano.
Perché non usarli? Perché non incoraggiarne l’uso? Perché bersi il primo e qualunque anglicismo che passa di lì, nudo e crudo, e totalmente estraneo all’ortografia e alla fonetica della lingua “dove il sì suona”?
Intendiamoci. Nel mio Uruguay io ho frequentato il St. Catherine’s School, scuola elementare e media completamente bilingue: al mattino avevamo le materie in inglese, nel pomeriggio in spagnolo.
Da ragazzo ho vissuto a Londra, sentendomi perfettamente a casa, e frequentando pure una scuola di perfezionamento: Hammersmith College, Proficiency Level.
La mia non è di sicuro una crociata contro l’inglese, lingua che mi appartiene. Lingua indispensabile per viaggiare, comunicare, incontrare il mondo.
Ma considero intollerabili le ferite che il provincialismo, l’esterofilia e la moda del “facciamoci del male” “made in Italy” -giusto per restare in tema-, stanno infliggendo all’italiano a colpi di anglicismi inutili e gratuiti, non tradotti né adattati. Non è colpa degli inglesi né dei nordamericani: è responsabilità esclusiva della classe dirigente italiana che guida il Paese, che trasmette conoscenza, che fa opinione -quindi professori e giornalisti compresi-, se la nostra lingua subisce un simile trattamento in patria.
Sono ferite, a volte persino torture che potrebbero essere evitate o lenite con un minimo di consapevolezza. Oppure semplicemente copiando la Spagna e l’intera America latina, la Francia, il Portogallo e la Romania. Impariamo dagli altri, se siamo diventati così insensibili sull’argomento.
Insisto su questo punto, perché il complesso di inferiorità che induce politici e docenti, economisti e artisti, giornalisti a ritenere che se lo dico con parola inglese suoni meglio (o peggio: che quel vocabolo sia intraducibile in italiano), spesso discende dalla loro scarsa conoscenza dell’inglese e delle altre lingue. E pure dal pronunciarlo con imbarazzante comicità, l’inglese maccheronico e machiavellico.
Ancora oggi in televisione professionisti di primo piano riferendosi a un campione del mondo di formula 1, lo chiamano “Emilton”, come se fosse Emilio, anziché Hamilton. Ancora oggi uno degli atti più rilevanti del Parlamento della Repubblica Italiana con sede a Roma, ossia le risposte dei ministri ai quesiti dei legislatori, è giornalisticamente chiamato “question time”. Da ridere e da piangere.
Al contrario del grottesco, chi è cresciuto fra le lingue -io ho fatto il Liceo classico Carducci a Merano, in Alto Adige, dove s’impara pure il tedesco-, sa distinguere perfettamente la proficua contaminazione, i prestiti tra le lingue che le arricchiscono, dal confuso e miope abbrutimento.
Un abbruttimento che, oltretutto, danneggia il principale requisito del buon giornalismo: essere chiari nella comunicazione.
Montanelli diceva che anche il portiere di casa sua doveva capire quello che noi scrivevamo. Gli anglicismi ripresi tali e quali e buttati dentro l’italiano come acqua nel serbatoio di un’automobile, che richiede invece benzina, vanno nella direzione opposta: impediscono a intere generazioni, specie di anziani, di capire di che cosa si stia parlando.
“Emilton” e “question time” sono l’emblema del male che l’inglese ha fatto all’italiano e l’italiano all’inglese, secondo una predisposizione al vassallaggio intellettuale che è inconcepibile in un Paese come l’Italia, superpotenza della cultura, dell’arte, della musica, di tutto ciò che rende la vita più bella e degna d’essere vissuta. “Dolce vita”: espressione italiana, infatti.
Dunque, io vedo nell’Accademia della Crusca e nello spirito di confronto che da sempre l’ha animata e alimentata non la Cassazione, ma la Corte Costituzionale della lingua italiana.
Quell’ultimo grado non di legittimità (tutto può essere legittimo in una lingua, purché ci siano regole e amore nei suoi confronti), ma di sapienza liberale. Una sapienza da tutti riconosciuta e oggi necessaria non solo per far rispettare il diritto e i diritti dell’italiano, ma pure per facilitare la comunicazione fra decine di milioni di persone in Italia e nel mondo.
So già che qualcuno storcerà il naso e subito dirà: eh, ma non è il compito della Crusca. Qui ci vuole una legge, perché l’Accademia possa ritagliarsi tale ruolo. Qui si rischia di esorbitare e via spaventando.
In realtà, vale l’esatto contrario. E’ arrivato il tempo delle responsabilità, non dell’eterna prudenza, che fa rima con indifferenza.
Se altri, per incompetenza, pigrizia o perché non porta voti elettorali, disertano la missione d’amore per la lingua italiana, spetta anche agli accademici, non meno dei giornalisti, scendere dalle torri d’avorio delle anafore e catafore (simpatico consiglio: nella prossima edizione spiegate al grande pubblico che cosa sono, non tutti hanno fatto il Classico), per parlare di governanza, di tabula rasa, del Papa e di Allah entrambi con la maiuscola o con la minuscola, ma entrambi. Per ricordare al legislatore che le leggi non si scrivono coi piedi, ma in buon italiano. E alle istituzioni che la lingua italiana non può essere incredibilmente abolita per sciatteria o per ignoranza -ignoranza anche delle sentenze della Corte Costituzionale, quella vera e non metaforica- a vantaggio monopolistico dell’inglese. Un atto suicida e servile al tempo stesso, che non può non vedere la rivolta degli italianisti e dei comuni cittadini italiani. La necessaria e tranquilla rivolta del buonsenso.
Scendere dalle torri d’avorio per parlare delle doppie -le quattro “t” di “soprattutto” furono il primo richiamo nel mio innamoramento per l’italiano-, per spiegare la sana problematicità del congiuntivo nel Paese e nella Nazione di cui siamo figli dei figli. Per comunicare agli italiani e agli immigrati, agli stranieri e al mondo con la lingua e nella lingua che profuma di Roma antica, che sa di Rinascimento, che odora di Risorgimento.
L’italiano non si parla, ma si canta, tanto è bello dentro e fuori.
Non è poi un fardello, né richiede chissà quali sacrifici scendere in campo più di prima per far riscoprire lo splendore della lingua italiana.
Una lingua magnifica, dalla quale si vede sempre il sole.
Grazie per la vostra attenzione.
Mio intervento il 24 ottobre 2024 presso l’Accademia della Crusca a Firenze per presentare il libro “Sbagliando si impari” (Mondadori) a cura della stessa Accademia