Se le sentenze sono emesse “in nome del popolo italiano”, se le pene devono essere proporzionate alla gravità dei delitti commessi, se il buonsenso è il principio che deve guidare la mano del legislatore quando scrive le leggi e quella del magistrato quando le applica, la scarcerazione di Giovanni Brusca è semplicemente sconcertante.
Quest’uomo, definitosi il “robottino di Totò Riina” tanto era diligente nell’eseguire gli ordini del capo di Cosa Nostra, autore di una quantità tale di omicidi di cui lui stesso ha perso il conto (“molti più di 100 ma meno di 200”, disse), e noto agli italiani per aver azionato il telecomando della strage di Capaci, cioè per aver ammazzato il giudice Falcone, la moglie Morvillo e tre agenti di scorta, e inoltre per aver ordinato prima di strangolare e poi di sciogliere nell’acido un ragazzino di 14 anni dopo averlo tenuto segregato per due anni -per vendetta nei confronti del padre della vittima e pentito di mafia-, un simile individuo chiamato ‘u verru, il porco, ha potuto beneficiare della sua collaborazione con lo Stato.
Una collaborazione, peraltro, cominciata con un tentativo di depistaggio e, a detta degli esperti, probabilmente incompleta, pur essendo risultata utile. Tant’è che ‘u verru ha potuto nel frattempo usufruire pure di permessi premio e ora, da sicario libero dopo 25 anni di prigione, sarà protetto nel programma di sicurezza per pentiti.
Il punto non è contestare provvedimenti o procedure che, dato lo spessore criminale di questo collaboratore di giustizia, si può star certi che siano stati seguiti ed eseguiti con massima attenzione dalle varie autorità chiamate a intervenire. Tutto si è svolto secondo legalità.
Né si deve confutare l’indubbia utilità della legge sui pentiti.
La cosa che lascia esterrefatti è che tutto il male compiuto da costui, un male incalcolabile tanto esso è mostruoso, sia espiato con una pena che finisce per dare a Brusca molti più anni di vita libera, passata e futura, di quanti ne abbia trascorsi in carcere.
Con ogni evidenza, questo stride in uno Stato di diritto, qualunque sia stato l’apporto della collaborazione. Oltre il dolore dei familiari delle vittime e la protesta dell’intero arco politico per la scarcerazione, l’interrogativo che indigna è sull’equità del senso di giustizia.
Uno Stato degno dei suoi cittadini e memore dei caduti per mano della mafia, deve considerare tutto, prima di mostrare clemenza.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi