Era l’ultima sfida elettorale prima delle europee in arrivo l’8 giugno. Anche in Basilicata il vento continua a soffiare a destra, come testimonia la vittoria della coalizione regionale, che si rifà alla maggioranza nazionale di governo. Con il sostegno particolare dell’area centrista Calenda/Renzi -ed è una novità-, a dispetto del “campo largo” che andava dal Pd al M5S.
Se è vero che nelle elezioni locali sono i temi e i candidati del luogo a fare la differenza (e il presidente uscente, Vito Bardi, è stato riconfermato), è altrettanto chiaro che c’è sempre un risvolto politico di possibile protesta contro Roma. Invece il voto a Potenza suona in sintonia con Palazzo Chigi.
L’altra considerazione è per gli sconfitti, cioè il fronte di centrosinistra all’opposizione. Per la seconda volta, dopo il precedente voto in Abruzzo, l’alleanza fra Pd e Cinque Stelle non decolla.
Le recenti polemiche tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein sullo scandalo politico-giudiziario che riguarda esponenti del centrosinistra in Puglia non hanno di sicuro giovato. Ma anche a prescindere dalla contingenza, è l’esperimento in quanto tale, che ha avuto successo solo nel voto in Sardegna, e soprattutto per demerito degli avversari di centrodestra, a non convincere l’elettorato. Se i due partiti sono uniti nell’opposizione al governo di Giorgia Meloni, agli occhi degli italiani appaiono, però, divisi tra loro su economia e temi come la guerra in Ucraina.
A ciò s’aggiungano i malumori nel Pd per la leader Schlein, accusata di guida solitaria (è stata costretta a non mettere, come avrebbe voluto, il suo nome accanto al simbolo del partito per le europee) e di essere troppo accondiscendente verso le ragioni del M5S, ossia una movimentista, anziché riformista. Lo scontro interno ed esterno a sinistra non ha incoraggiato gli elettori di area.
Ma forse è la terza considerazione a dover preoccupare vincitori e vinti. Per la prima volta in Basilicata gli astenuti hanno superato gli elettori, che sono stati appena il 49,8 %. Se prevale la tiritera del “tanto non cambia niente”, se il disinteresse civico porta un elettore su due a restare a casa, il “diritto di voto”, cardine della democrazia, perde metà dell’efficacia.
Questo non significa ridimensionare il risultato di chi ha vinto, e che, peraltro, aveva vinto anche cinque anni fa. Significa, però, far suonare l’allarme a tutti i partiti. Se i programmi che promuovono e i candidati che propongono, ma soprattutto la loro azione -o inazione- politica attirano sempre meno elettori, la responsabilità è solo in parte di chi diserta le urne. Al tasso di un qualunquismo statisticamente ineliminabile (ma nel 1948, altri tempi, in Italia votava il 92% degli aventi diritto), negli anni s’è aggiunta la consapevole e volontaria disaffezione al voto. Fenomeno di disincanto universale, non solo nazionale o regionale.
Meditate, politici, meditate.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova