I navigatori nella Rete, che non è la bocca della verità, ma ogni tanto ci azzecca, l’hanno già ribattezzato “il presidente più onesto del mondo”. Perché lui s’è decurtato lo stipendio del novanta per cento, ha destinato una parte della residenza istituzionale ai bisognosi e ha rifiutato l’auto blu e la scorta. L’uomo preferisce girare col suo vecchio maggiolino di colore azzurro e abitare con la moglie nella casa di campagna in periferia.
Ecco a voi José Alberto Mujica Cordano detto “Pepe”. E’ il presidente dell’Uruguay, che è la Repubblica con la più lunga e antica tradizione democratica in America latina. “Il fiume degli uccelli dipinti”, secondo la traduzione poetica del nome Uruguay, uno dei rari toponimi di origine india sopravvissuti in un piccolo Paese incuneato tra l’Argentina e il Brasile: Davide tra i due Golia, tre milioni e mezzo di cittadini d’origine per metà spagnola e per metà italiana. “Pepe”, cioè “il presidente più onesto del mondo”, rispecchia la storia al presente della nazione che ha dato al mondo la voce del tango negli anni Trenta -Carlos Gardel, che prenderà anche la cittadinanza argentina-, e campioni sportivi del calibro di Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino negli anni Cinquanta. Entrambi giocatori sia nella Celeste uruguaya che tra gli Azzurri d’Italia. Entrambi provenienti dal leggendario Peñarol di Montevideo, che l’anno scorso la Fifa ha proclamato “la squadra del secolo”, il Novecento, e che vanta, al pari di Ghiggia e Schiaffino, un’origine italiana: Peñarol da Pinerolo. Da lì proveniva il piemontese Juan Bautista Crosa, un bottegaio molto amato dai locali alla fine del Settecento. “El de Pinerol”, lo chiamavano i paesani, “quello di Pinerolo”. Alla sua morte la frazione del podere in cui viveva, fu denominata “Peñarol” in memoria. E proprio in quel luogo nascerà, anni dopo, la squadra di calcio con più coppe al mondo e con le inconfondibili magliette gialle e nere a strisce verticali.
Ma l’Uruguay ha “inventato” anche una certa tradizione del mate, erba calda e amara simile a un tè, che la gente beve e condivide in pubblico. L’Uruguay offre, oggi, un’idea semplice di che significa “rettitudine”.
Mujica rispecchia la felice mescolanza italiano-spagnola che ha trovato a Montevideo, la capitale, il suo ponte naturale. Rispecchia l’onestà di comportamenti che non è mai ostentata, perché è normalità di vita quotidiana. Sulle rive del Río de la Plata, che è il fiume più largo del pianeta, all’ignaro turista può capitare che il tassista restituisca il denaro dato inavvertitamente in più. Accade, perché è giusto così.
“Pepe”, dunque, il presidente che ha scelto di vivere come la sua gente, ossia con il corrispondente di 930 euro al mese (anziché i 9.300 dello stipendio; la differenza la devolve ai poveri e ai piccoli imprenditori), è come quel tassista immaginario, ma vero. Esprime la mentalità media e popolare dei suoi conterranei, che infatti gli vogliono bene anche quando lo prendono in giro, e accade sovente. L’uomo ha settantotto anni portati con fatica. Il presidente fu leader dei Tupamaros (“militante”, lui correggerebbe) nel periodo buio della dittatura militare. Imprigionato e torturato dal 1973 al 1984. Guerrigliero e poi, col ritorno della democrazia, legislatore. Io l’ho intervistato sia da senatore del centro-sinistra, sia da ministro dell’Agricoltura nel governo di Tabaré Vázquez, il precedente e primo presidente progressista che non ha mai sbandato nel castrismo. Sempre immerso in una nuvola di fumo di sigaretta, il conversatore Mujica, che parlava a voce bassa: da uruguaiano a italo-uruguaiano, quale io sono.
La passione di Pepe per il campo viene da Antonio Cordano, il nonno ligure che -mi raccontava ancora commuovendosi-, trascorreva le estati con lui bambino, mano nella mano, insegnandogli l’arte della coltivazione. Il nonno aveva una cooperativa vitivinicola. Con gli italiani dell’epoca costruì una cappella -la cappella di “San Roque”-, portando la campana dall’Italia. Una memoria viva e riassunta in un piccolo Tricolore che il ministro uruguaiano Mujica aveva nell’ufficio, perché l’Italia è una parte dell’identità per tanti sudamericani, come un canto lontano che evoca felicità per le cose belle, e il grato ricordo degli avi. L’epopea dei bastimenti.
Curvo nel fisico, ma non nelle idee di radicale buonsenso, basso di profilo e con le mani callose di chi è abituato a metterle dentro la terra, quando gli chiesi che mestiere rivendicasse, Mujica rispose: quello del floricultore. Gustandosi con aria furba un sorso di mate.
“Populista”, gli rinfacciano ora gli avversari. Non credo che lui s’offenderà. Ma nessuno potrebbe accusarlo d’essere il solito “caudillo” latino-americano, un demagogo da balcone come i non pochi che si sono affacciati e ancora s’affacciano alla Casa Rosada della vicina Argentina. Pepe è solo un uomo del suo popolo, una persona dell’universale platea dell’umanità, un presidente che dà un piccolo, grande esempio. Senza voler essere da esempio per nessuno.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi