L’importanza di chiamarsi Fidel Castro. Fidel Castro Malatesta.
La Storia ha segnato due volte l’anagrafe di un oggi tranquillo pensionato di 63 anni, nato a Mercedes, in Uruguay. La prima volta con l’ingombrante nome di battesimo e cognome paterno, Fidel Castro. La seconda col cognome materno e illustre d’origine italiana, Malatesta. In Uruguay si usano i due cognomi.
L’uomo dalla doppia, evocativa identità è stato per lungo tempo imprenditore. Un imprenditore sudamericano che fin da adolescente ha dovuto fare i conti con un nome pesante da portare, e che gli ha creato brutti guai e divertenti equivoci. Ma che l’ha sempre costretto a dover spiegare all’incredulo interlocutore di turno che lui, Fidel Castro da Mercedes, non era sosia, parente e neppure simpatizzante del Fidel Castro da Cuba. All’ombra del quale è vissuto.
E poi, come se non bastasse, quell’altro cognome italiano, tanto per lui indecifrabile: Malatesta, “Malacabeza” per dirlo in spagnolo.
Il Fidel che non è Fidel sarà almeno un discendente d’Oltreoceano di quell’antica e potente famiglia riminese, che lasciò la sua impronta fra il XIII e XV secolo?
“Sono nato il 4 novembre 1959, anche se nel documento figura il 5”, racconta il Fidel Castro che non ti aspetti. “Ero il penultimo degli otto figli per i quali i miei genitori si divisero il compito del battesimo, alternandosi nel dare i nomi ai neonati. A me toccò mio padre. Che pensò bene di approfittare del cognome Castro per attribuirmi Fidel”. “Accadde”, spiega, “perché proprio all’inizio di quell’anno Fidel Castro entrava all’Avana accolto come il grande liberatore dalla dittatura di Batista. E pochi mesi dopo sarebbe venuto in visita in Uruguay”.
Fu quel viaggio birichino a folgorare il papà, “che era un poliziotto e pure anticomunista”, sottolinea con ironia il figlio del destino. “Ma per tutti Fidel era “el libertador”. Mai nessuno avrebbe immaginato il suo voltafaccia, presto rivendicando d’essere un marxista-leninista. Né che sarebbe diventato uno spietato dittatore. Solo che nel frattempo io sono rimasto Fidel Castro per tutta la vita”.
La scoperta del nome stravagante la fece da alunno delle medie. “Con quel nome mica puoi andare in una scuola pubblica”, gli disse la madre in piena epoca di guerriglia dei tupamaros, iscrivendolo in un istituto privato e cattolico. Ma i preti che dicevano? “Imparziali”, risponde e ricorda Fidel.
Tuttavia, lo studente di allora incrociò gli anni del regime militare in Uruguay (dal 1973 al 1985). Una sventurata parentesi nella storia della più longeva e solida democrazia d’America latina.
“Furono dolori”, oggi rievoca. “Ogni volta che la polizia ci fermava per controllare i documenti, e capitava spesso quando giravo con i miei amici in gruppo, leggevano come mi chiamavo e finivo dritto agli arresti per accertamenti. Mi tenevano anche un paio di giorni e notti. Quando mi rilasciavano, se andava bene i poliziotti ridevano, “mirá que nombre tenés”, ma guarda un po’ che nome che hai… Se andava male, mi minacciavano: “Non mi importa come la pensi, con quel nome ti possiamo bastonare quando vogliamo”.
Cambia lo scenario col ritorno delle libere elezioni a Montevideo, la capitale, e chiamarsi Fidel Castro non è più un tabù, bensì una fortuna. Almeno per una certa parte politica.
“Anch’io sono del Partito”, mi dicevano i comunisti, facendomi l’occhiolino”, ricorda. Oppure, “ho sempre ammirato il líder máximo”, dandomi di gomito. Dentro di me ridevo per come la percezione di un nome potesse cambiare a seconda del tempo e del vento. E perché io ero un simpatizzante del “Partido Blanco”, centrodestra. Non un uomo di sinistra. Tant’è che, quando partecipavo a qualche assemblea di partito, al microfono non perdevano occasione per prendermi in giro: “Fate attenzione, c’è un infiltrato tra noi”.
Ma i malintesi più spassosi erano apolitici. Come quella volta che telefonò per prenotare in albergo. “Buongiorno, mi chiamo Fidel Castro”, si presentò. “E io Che Guevara”, gli risposero, buttando giù la cornetta.
O quando gli suggerivano di dichiarare il cognome omettendo il nome, “non si sa mai”. O lo pregavano di non insistere con la bufala del nome, “perché di Comandanti ce n’è uno solo”. “Fidel Castro? Vai pure a Cuba e lasciaci lavorare”.
Ha ascoltato e subìto di tutto, il rassegnato innocente. Compresa la bocciatura alla patente di guida, “perché non hai girato a sinistra”, gli spiegò, beffardo, l’esaminatore. “Non sono mai passato inosservato, ma non ho mai pensato di cambiar nome”, afferma. “Diciamo che ho dovuto indossare un impermeabile per tutta la vita per farmi scivolare sopra le reazioni mai cessate. Neanche dopo la morte del dittatore nel 2016”.
Adesso Fidel Castro s’interroga sul suo Malatesta, il cognome del nonno materno José Sixto. “Lavorava nei campi, morì giovane e veniva dall’Italia”, racconta, mentre s’esercita nell’arte, lenta e paziente, dell’asado, l’arrosto alla brace di cui è diventato esperto per passatempo.
“Mi piacerebbe andare in Italia per scoprire le mie origini”, confessa, attizzando il fuoco sotto la carne, che però brucia anche dentro di lui.
E di andare a Cuba? “No, quello non mi interessa. Credo di aver già dato”.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma