A volte non sembra che i politici siano stati alunni e non solo bambini, studenti oltre che ragazzi, laureati -diversi di loro-, e non solamente dottori in promesse. Altrimenti, se gli eletti del popolo fossero consapevoli del passato che non passa, perché mai si finisce d’imparare, ogni governo avrebbe compreso da tempo, e il Parlamento subito assecondato, quale sia la priorità delle priorità: investire idee e risorse nella scuola, cioè nell’unica istituzione che unisca al di là di qualsiasi barriera, formando italiani e stranieri, inventando il futuro e riscoprendo la memoria, coltivando le più grandi amicizie e i primi amori. Sperimentando delusioni e amarezze incancellabili. La scuola non prepara alla vita, come suole dirsi, ma ci introduce direttamente in essa. A prescindere dalla famiglia che c’è sempre, dal lavoro che prima o poi arriverà (si spera), dal “che fare da grande” tante volte immaginato e qualche volta realizzato. Non esiste ex scolaro d’Italia che, terminato il ciclo di studi -ma talvolta persino prima-, non abbia sognato l’esame di maturità come un incubo che ti perseguita, come una tappa ancora da affrontare per diventare adulti. “Non ti sei ancora liberato di me!”, sembra sussurrarti di notte il problema di matematica, la versione di latino, l’interrogazione di storia, prima di svegliarti di colpo e capire che per fortuna certi sogni muoiono all’alba. E allora, se è la scuola il centro della nostra vita persino quando a scuola non andiamo più, tutto diventa importante: dalle materie scelte dal ministero per strappare il benedetto diploma alla riforma scolastica all’esame del Senato dopo aver superato quello, non facile, della Camera. All’idea stessa dell’Italia che vogliamo costruire e consegnare ai nostri figli, magari ancora più bella di quella ricevuta dai nostri padri. Solo così hanno un senso ed esigono una risposta le discussioni sul ruolo dei presidi e sul riconoscimento dei precari. Il rapporto pubblico-privato attorno alla lavagna. La valorizzazione del merito, che è l’arma segreta dell’eguaglianza, perché consente allo studente bravo e alla studentessa di talento di arrivare dove neanche i figli di papà arriverebbero, se anch’essi non fossero in gamba. E poi: come accompagnare il sapere alla formazione. E applicare sul campo la conoscenza. E aiutare i docenti a diventare o ridiventare maestri, ossia persone preparate che a loro volta continuano a studiare in un’epoca dove tutto cambia. E dell’oggi stesso, non soltanto del “doman”, come credeva il letterato, “non c’è certezza”. Non solo una riforma, perciò, ma una visione della nostra scuola. Non solo una “buona scuola” a parole, ma una “scuola buona” nei fatti. Non solo l’introduzione vera della modernità dell’informatica e dell’inglese, ma anche il rilancio dell’antico e straordinario patrimonio italiano, che è la lingua italiana, la musica e l’arte italiane, lo sport, la poesia e la fisica italiani e universali. Però mai l’inglese a scapito dell’italiano, come vogliono i provinciali che non parlano l’inglese e che non s’esprimono bene neanche in italiano: l’inglese in aggiunta all’italiano. Con la massima apertura alle altre lingue, perché il mondo è un arcobaleno poliglotta, non l’egemonia di una lingua sola.
Dunque, è dalla grande riflessione dei cittadini e del Parlamento, anche con una seduta congiunta delle Camere -mai finora indetta nella storia della Repubblica- per dibattere e decidere della scuola, che può arrivare la svolta. Altrimenti ogni riforma si limiterà a riformare la precedente riforma. Pannicelli caldi e polemiche roventi, mentre noi continueremo a sognare la maturità, tanti e dolcissimi anni dopo.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi