Il professor Antonio Giordano è nato a Napoli e ha 43 anni, ma risiede da molti anni a Filadelfia (Stati Uniti), dove dirige lo Sbarro Institute for Cancer Research and Molecular Medicine e il Centro di biotecnologia della Temple University. Ma dove ha soprattutto scoperto diversi geni anti-cancro, tra i quali l’Rb2/p130 e i CDK9 e CDK10. Autore di decine di pubblicazioni scientifiche e detentore di tredici brevetti internazionali, il suo laboratorio in Pennsylvania accoglie molti ricercatori italiani. Da un paio d’anni Giordano insegna anatomia patologica anche all’Università di Siena. Presiede la Human Health Foundation, fondazione da poco nata in Italia per sostenere nuovi programmi di ricerca nel campo della salute.
Quand’è che ha scoperto l’America, e cosa andava cercando, in realtà?
“L’ho scoperta per piacere, un viaggio-premio che feci ad appena tredici anni a New York presso dei cugini americani. Nell’immaginario di un bambino italiano l’America era quella dei film, e la prima cosa che volevo “ritrovare” erano le grandi automobili, tipo la mitica Cadillac di Humphrey Bogart. E poi l’America affascinante, quella dell’Apollo 11: ricordo una mostra a Washington con la prima tenuta di Armstrong, l’astronauta sulla Luna. Dopo la licenza liceale e mentre mi iscrivevo, diciassettenne, a Medicina, tornai come osservatore in uno dei primi laboratori di medicina nucleare a Houston, nel Texas. Fu lì che rimasi folgorato dal sistema americano. Ricordo l’incontro con il primario di chirurgia, il famoso Denton Cooley, che dirigeva il più grande centro di trapianti di cuore al mondo. Un pioniere. Mi colpì la sua semplicità. Si sedette al tavolino del bar con tre o quattro di noi studentelli appena arrivati dall’Europa e dal Sud America e ci raccontò delle sue origini scientifiche. Non dimenticherò le sue parole: “Ragazzi, se io avessi la vostra età, mi interesserei di genetica. E’ la disciplina che cambierà il mondo nei prossimi trenta/quarant’anni”. Erano le sette del mattino, estate 1980”.
E lei alla genetica s’applicò. O non subito?
“Subito. Però non colsi immediatamente il pieno significato della svolta in arrivo. Lo intuì l’anno successivo, quando compresi che la chirurgia non associata alla conoscenza della biologia delle malattie, rischiava di diventare pura routine, puro gesto tecnico con limitazioni sotto il profilo terapeutico. Compresi l’importanza di andare a studiare le malattie alle radici. Dunque, Dna, la moleca della vita. Mi imbattei nella genetica per non mollarla più”.
Ma per un ricercatore alle prime armi, tipo il Giordano di ventisei anni fa, gli Stati Uniti attirano o spaventano?
“Oggi attirano sempre di più, allora era diverso. Ma più che di timore, parlerei della grande paura di sognare”.
Perché proprio al “male del secolo” s’è dedicato, o il cancro non è più un male assoluto?
“Il cancro è ancora un male serio da affrontare, ma l’arsenale a nostra disposizione per batterlo è molto maggiore. E con la rivoluzione tecnologica del genoma umano quest’arsenale di armi sofisticate è diventato immenso. Il problema è che ora dobbiamo dominare con sapienza queste tecnologie, senza perdere di vista il fattore etico: il pericolo che la tecnologia prenda il sopravvento, incontrastata”.
Lo sconfiggeremo sradicandolo, il cancro, o imparando a convivere con lui? Con la guarigione o con la prevenzione?
“Prevenzione. E di nuovo si torna alla genetica, che è la madre di tutte le grandi sfide della medicina, dal cancro alle malattie cardiovascolari, all’obesità, perfino. Un giorno, e non lontano, arriveremo a controllare i tumori molecola per molecola. E per alcuni tumori questo controllo che impedisce la progressione della patologia è già una realtà. Penso al tumore alla mammella, o alla prostata, al testicolo, a certe forme di leucemia”.
Quanti sono i giovani studiosi italiani negli States, e dove eccellono?
“Ormai si contano a migliaia e si affermano in tutti i campi in cui si cimentano. Nella medicina poi i ricercatori italiani sono ambìti, per la loro preparazione di base, per la serietà, per il desiderio di emergere in un ambiente così competitivo”.
Può fare un esempio concreto di che cosa possa fare uno scienziato negli Usa che non possa fare in Italia?
“Riuscire a sviluppare nel giro di quattro/cinque anni un proprio programma indipendente di ricerca. Dirigere programmi importanti in compagnie biotecnologiche, in accademie, in istituti di ricerca. E poi ordinare del materiale biologico per un esperimento e averlo in quarantotto ore”.
La giornata tipo di uno studioso da laboratorio, qual è?
“Dodici ore. Secche secche. E con puntatine al sabato e alla domenica. Talvolta anche a notte fonda. I miei più importanti lavori sul ciclo cellulare li ho svolti fra le ventidue della sera e le sei del mattino. Non dimenticherò mai un esperimento che mi capitò di completare la notte di Natale del 1988 in una camera fredda a quattro gradi”.
Ma Babbo Natale e sua moglie le avranno almeno negato i regali sotto l’albero?
“Il grande regalo fu la pubblicazione del mio primo lavoro importante (la scoperta della proteina denominata poi ciclina A, responsabile della divisione cellulare) sulla prestigiosa rivista “Cell”; lavoro citato tuttora. Mia moglie era ancora in fase di corteggiamento, per cui fu indubbiamente clemente…”.
Quanto deve della sua attività ai poveri ma eroici topolini?
“Moltissimo. I topolini sono stati il primo passaggio “in vivo” delle mie teorie scientifiche”.
La dote che si richiede per fare una scoperta, fortuna a parte?
“Perseveranza, e molta energia”.
Quale fu la sua prima reazione per la sua prima scoperta?
“Io non gioisco nel momento in cui confermo una mia scoperta. Penso subito a come applicarla per curare. Certo, quando l’esperimento funziona, ed è riproducibile, si prova un piacere indescrivibile. Attenzione però: anche gli esperimenti che falliscono motivano il ricercatore, perché lo spingono a elaborare strategie differenti. Persino gli errori possono imprevedibilmente diventare momenti di grandissima gioia”.
Gli americani pagano a peso d’oro i nostri cervelli che fuggono. Come vi difendete dal rischio che comprino anche la vostra anima?
“Agli inizi gli americani non pagano affatto a peso d’oro, e a volte sottopagano, persino. L’investimento diventa invece cospicuo nel momento in cui capiscono che quel cervello “vale”. Nella ricerca è difficile “comprare l’anima”. Quella accademica mantiene sempre una sua purezza di fondo, e quella individuale dipende ovviamente dai soggetti. Basta avere consapevolezza del lavoro che si fa, e dei principi che guidano chiunque scelga la strada della ricerca”.
Ma se una casa farmaceutica o una multinazionale finanzia una ricerca, lo studioso come tutela la sua libera coscienza?
“Prima di tutto è difficile che una multinazionale possa influenzare un programma di ricerca di base, che è per la maggior parte finanziata dallo Stato americano, cioè dal governo federale. E dunque è quanto di più pubblico e trasparente possa esistere. Semmai, l’insidia subentra nel momento del successo. E lì bisogna rimanere se stessi. Un vero ricercatore non si fa mai controllare la cosa più preziosa che ha: l’intelletto”.
Perché la patria di Leonardo, di Galileo, di Marconi, di Rubbia e di tantissimi altri dedica solo le briciole del bilancio alla ricerca?
“Perché non c’è volontà politica e manca la capacità istituzionale di guardare lontano. La ricerca non porta voti”.
Come s’inverte la rotta: togliendo risorse pubbliche ad altri settori oppure aprendo al sostegno dei privati?
“I privati devono essere stimolati a investire. Ma il primo investimento dev’essere pubblico. La ricerca deve diventare un prioritario interesse nazionale. Lo Stato deve trovare o creare le risorse per sostenere e tutelare l’attività di migliaia di giovani che ha formato -spesso in modo eccezionale- in tanti anni scolastici”.
Si metta nei panni istituzionali del sistema italiano. Quali errori non commetterebbe?
“Non investirei su ricercatori nella fase finale della loro carriera. La maggior parte del lavoro creativo avviene tra i venti e i quarant’anni. E’ su questa fascia di pensatori e di sperimentatori che bisognerebbe indirizzare le risorse finanziarie”.
Al ministro dell’Università e della Ricerca, Fabio Mussi, che consiglio darebbe per rilanciare la ricerca in Italia?
“Di creare competizione. Di vigilare con maggiore attenzione la destinazione delle già scarse risorse, che andrebbero date con criteri esclusivamente meritocratici e sulla base di progetti con tre caratteristiche: l’originalità, la qualità e la potenzialità di sviluppo”.
E per rilanciare la ricerca italiana all’estero?
“Creare risorse per attrarre i ricercatori nel loro Paese d’origine, mantenendo il loro alto livello di studio. E’ difficile attirare un ricercatore che eccelle in America se non ha la possibilità, magari per un malinteso senso burocratico, di eccellere anche in Italia. Non deve trovare delle incompatibilità ambientali, per usare un’espressione conosciuta”.
Ma gli scienziati come lei -e lei stesso- siete disposti a collaborare con la vostra Nazione o chi s’è visto, s’è visto?
“Siamo prontissimi, molti di noi lo sono, come no? Sarebbe il coronamento di un sogno: cercare di essere degni eredi di una tradizione straordinaria di talenti, di una tradizione, peraltro, che non è mai venuta meno e che il mondo internazionale della scienza ci riconosce. Per restare al mio campo, penso anche a Camillo Golgi, il premio Nobel che ha scoperto una particolare struttura intra-cellulare (“l’apparato del Golgi”). Le istituzioni dovrebbero mostrare maggiore orgoglio per questa “scuola” antica e con punte di genialità, promuovendola, sostenendola, aiutandola a competere nel mondo”.
A un ragazzo appena laureato e con tanta voglia e capacità di crescere, oggi direbbe di fuggire o di tornare in Italia?
“Userei la parola fuggire, adesso. Ma sarà lui stesso, appena avrà compiuto un’auspicabile e lunga esperienza all’estero, a capire l’importanza del tornare. Si torna sempre”.
Pubblicato il 6 agosto 2006 sulla Gazzetta di Parma