Per fortuna quando si discute di grande riforma, e in Italia se ne discute da 40 anni tondi (la prima seduta della prima commissione sul tema, presidente il liberale Aldo Bozzi, risale al 30 novembre 1983), accanto al mare di parole svettano montagne di documenti. E i documenti testimoniano quanto sia surreale la polemica politica in pieno corso sulla proposta costituzionale che riguarda il (futuro) presidente del Consiglio.
Nel 1997, quando a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, il centrosinistra nella famosa e fumosa Bicamerale-D’Alema propose e sostenne invano, in alternativa al semipresidenzialismo poi approvato da quella commissione, un primo ministro con poteri ben più solidi e ampi di quelli ora prospettati dal centrodestra. Non eletto dal popolo, come invece stabilisce oggi il testo del governo, ma in compenso con la prerogativa, “sentito il Consiglio dei ministri e sotto la sua esclusiva responsabilità”, di chiedere lo scioglimento della legislatura, “che deve essere in tal caso decretato dal Presidente della Repubblica” (articolo 3 del testo presentato dal senatore Cesare Salvi, Pds, relatore per la forma di governo). Palazzo Chigi avrebbe avuto, addirittura, la chiave d’avvio dello scioglimento anticipato: scusate se è poco, trattandosi del potente potere che la Costituzione attribuisce al Quirinale.
Non basta. Quel primo ministro “nomina e revoca con proprio decreto i ministri” (articolo 2). Altro potere importante tolto al capo dello Stato.
E poi già nella scheda elettorale i partiti dovevano indicare il nome dell’aspirante capo dell’esecutivo: “La candidatura alla carica di Primo ministro avviene mediante collegamento con i candidati all’elezione della Camera dei deputati, secondo le modalità stabilite dalla legge elettorale, che assicura altresì la pubblicazione del candidato Primo ministro sulla scheda elettorale” (articolo 1). Al Colle rimaneva un compito puramente notarile sul tema: “Il Presidente della Repubblica, alla proclamazione dei risultati per l’elezione della Camera dei deputati, nomina Primo ministro il candidato a tale carica al quale è collegata la maggioranza dei deputati eletti” (sempre articolo 1).
Dunque, pur non essendo contemplata l’elezione diretta del primo ministro, il capo dello Stato era tenuto a nominare chi avesse vinto le elezioni. Lo stesso principio che ora persegue il governo, ma all’incontrario: è il presidente del Consiglio eletto dal popolo a trascinare la maggioranza in Parlamento (testo del centrodestra), anziché la maggioranza eletta che trascina il presidente del Consiglio (testo che era del centrosinistra). Nell’auspicabile intento che in Parlamento si trovi un’intesa sulle regole per tutti gli italiani, c’è già un solare precedente che il centrosinistra faticherebbe a contestare: è tutta roba sua.
Del resto, in un mondo sottosopra, la ricerca della stabilità in Italia è un nuovo, prezioso valore da contrapporre anche alla pratica dei ribaltoni, il trasformismo avvilente di chi tradisce gli elettori, la propria coscienza e il buon nome della Repubblica.
Ma pure qui, contro il cambio di casacca a partita in corso, sono esemplari i concetti che si trovano nella soprannominata bozza-Amato (dicembre 2003). Il centrosinistra la stilò per dialogare con la maggioranza di centrodestra (epoca governo-Berlusconi). Vi conteneva un breve, ma esplicito richiamo allo stesso obiettivo del testo del governo-Meloni.
Ecco il richiamo: “E’ giusto che non siano legittimati i c.d. ribaltoni”.
Si valorizzava, inoltre, il ruolo della “maggioranza iniziale”, cioè quella uscita dalle urne. Al punto che essa poteva sostituire, in maniera “comunque autosufficiente anche se integrata o eventualmente ridotta”, il suo stesso capo dell’esecutivo, se sfiduciato. Così l’altrimenti automatico voto anticipato sarebbe stato evitato, ma non ricorrendo ai ribaltoni (si leggano i “Principi e proposte per la riforma della Costituzione in tema di forma di Governo, Senato della Repubblica, garanzie democratiche. Coordinamento dei segretari dei partiti del centrosinistra”, 10 dicembre 2003). Pure questa bozza-Amato prevedeva, infine, il potere di nominare e revocare i ministri per il capo dell’esecutivo, a differenza della più morbida proposta-Meloni.
Sul presidente del Consiglio “forte” era molto più forte la sinistra ieri di quanto lo sia la destra oggi.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma