Da Dante a papa Francesco, dall’italiano senza frontiere del Cinquecento a quello di una certa idea dell’Italia nel Risorgimento, dal prezioso tesoro della memoria -il latino- al provincialismo del presente: le istituzioni italiane che rinunciano all’antica e moderna lingua italiana per comunicare in un inglese imbarazzante. Dell’italiano che cambia parla Luca Serianni, professore di Storia della lingua italiana alla Sapienza e fresco autore, dopo altri importanti lavori sulla nostra lingua, dell’appena uscito per Laterza “Prima lezione di storia della lingua italiana”. Una storia con più di mille anni, eppure come materia universitaria nasce appena nel 1938. Vien da dire: “Scusate il ritardo”. Come si spiega, professore? “In realtà molte delle materie che s’insegano all’Università sono di fondazione abbastanza recente”, risponde Serianni. “Ma alcuni temi -la lingua delle origini, il passaggio dal latino all’italiano-, erano stati già ampiamente indagati nell’Ottocento. E’ solo l’organizzazione accademica della disciplina, pur importante, che risale al 1938”.
Il latino è un padre lontano o una madre sempre presente per l’italiano?
“Io direi una madre sempre presente, almeno fino a stagioni molto vicine. Il latino è rimasto in alcuni ambiti. Fino al Settecento era normale che si insegnasse in latino nell’Università. Fino al Concilio Vaticano II (1965) è stato la lingua ufficiale della Chiesa. Il latino ha contato molto fino a oggi come riferimento e fonte lessicale in una serie di parole del linguaggio giuridico che si rifà al diritto romano”.
Letteratura colta o parlata popolare, a chi deve di più la nostra lingua?
“Forse all’italiano scritto che non è solo quello della grande cultura letteraria, ma quello che si è diffuso e codificato precocemente già nel Cinquecento, e che ha dato vita anche a un italiano della diplomazia. Nel Settecento l’italiano è stato usato come lingua diplomatica per dei trattati di pace tra russi e turchi. E nel Seicento i documenti della cancelleria di Tunisi erano scritti in misura notevole proprio in italiano. Quindi è esistito un italiano scritto che non ha una matrice letteraria, che non risale né a Boccaccio né a Petrarca, ma che è servito come lingua scritta di comunicazione colta”.
E’ stata la lingua italiana l’arma invincibile del Risorgimento?
“L’italiano ha fornito agli intellettuali del Risorgimento un elemento che permetteva loro di sottolineare la continuità dell’idea di Italia. Se non ci fosse stata la condivisione linguistica, sarebbe stato molto più difficile. A livello scritto circolava una lingua comune dei vari Stati preunitari: un punto di forza. Nessuno strato aveva come lingua scritta il dialetto. I dialetti erano chiaramente parlati. Però, nel momento in cui si passava alla codificazione scritta, l’italiano era il punto di riferimento”.
Qual è oggi l’insidia più temibile per la lingua italiana?
“Forse un passaggio indiscriminato all’inglese in alcune aree, in particolare nell’istruzione universitaria di materie tecnico-scientifiche. Va benissimo che si offrano corsi in inglese e che a scuola alcune materie si svolgano in inglese. Sarebbe però un rischio se l’inglese fosse esclusivo, cioè se in una facoltà di economia o di ingegneria si sentisse fare lezione solo in inglese o anche in una scuola superiore tutto l’intero corso, poniamo, di matematica. Il risultato paradossale sarebbe che i ragazzi non conoscerebbero più parole come isoscele o teorema. Se una lingua perdesse una parte importante del lessico, come quello della matematica o delle scienze, allora cesserebbe d’essere una lingua a pieno titolo e diventerebbe un pur rispettabilissimo dialetto”.
Come valuta l’italiano che Papa Francesco utilizza sempre, anche nei suoi viaggi in giro per il mondo?
“E’ un dato molto significativo, com’era già avvenuto, del resto, con Wojtyla. Papa Francesco è uno dei massimi ambasciatori della lingua italiana nel mondo, a cui ricorre come lingua veicolare. Il suo è un ottimo italiano con una leggera patina spagnola, che si spiega perfettamente. E’ un italiano molto ricco come lessico. Penso a tutte le volte che il Papa improvvisa rispetto al testo scritto. E’ proprio lì che si vede la sua grande confidenza con l’italiano”.
Se dovesse dare un consiglio a chi compete la valorizzazione della lingua italiana in Italia e nel mondo, quale sarebbe?
“Intanto raccomanderei di usare sempre l’italiano a livello ufficiale e istituzionale. Esempi negativi sono sotto gli occhi di tutti, dal cosiddetto “question time” in Parlamento al logo coniato e in uso dal Comune di Roma per promuovere la capitale d’Italia. Non possiamo vergognarci dell’italiano a livello istituzionale! Poi suggerirei di favorire l’interesse per l’italiano nel mondo, dando un contributo alle scuole italiane all’estero. Non dimenticando che questo favorisce anche il turismo, una delle fonti fondamentali della nostra economia”.
L’ormai prossima l’Esposizione universale a Milano può essere vista come un’opportunità straordinaria per l’italiano?
“L’Expo sarà una palestra plurilingue, le informazioni non devono essere solo in inglese, ma anche in cinese, in arabo, in giapponese. Ma Expo sarà una vetrina universale anche per la lingua italiana, che deve avere un suo spazio importante”.
Nel mondo si va verso il plurilinguismo o verso l’inglese egemone?
“E’ difficile immaginare l’egemonia di una sola lingua a livello globale. Il plurilinguismo è una condizione ineliminabile e fisiologica. La varietà del mondo sarebbe appiattita, se si ricorresse a una sola lingua. E’ astratto o utopico credere che questo possa essere superato da un’unica lingua universale”.
Ma padre Dante sarebbe orgoglioso o inorridito dell’italiano che parliamo oggi?
“Dante aveva una chiara percezione del fatto che le lingue cambiavano. Tutto sommato rispetto all’epoca sua l’italiano è ovviamente molto cambiato, ma non al punto che Dante non ci si riconoscerebbe, se tornasse in vita. Penso che potrebbe essere soddisfatto di com’è andata a finire”.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma