Non era ancora successo che il destino di un referendum, il più importante dei tanti finora promossi, fosse così legato al destino di un partito, che è stato il più votato alle ultime politiche ed europee. In più, come in una matrioska dove ogni pezzo che si scopre ne contiene un altro, il referendum e il partito sono a loro volta appesi alla sorte del segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio, Matteo Renzi. E perciò sono vincolati anche al governo e alla durata della legislatura, un pezzo dopo l’altro. Ma intervenendo ieri a una direzione del partito annunciata, non a torto, da “resa dei conti”, Renzi ha alzato la posta nei confronti della minoranza interna, che da mesi lo tormenta e si tormenta. Da una parte ha confermato che lui è pronto a cambiare la legge elettorale, dall’altra ha avvertito i suoi avversari che il Paese viene prima del Partito: “La riforma costituzionale non è un giocattolino, non ci fermeremo”. Siamo al punto del non ritorno? Chissà, anche se in politica gli scontri più accesi, e questo nel Pd è ormai bollente, trovano sempre una “ricomposizione”, come adorano chiamarla quelli che se le suonano e se le cantano, ma poi restano tutti nel coro, magari solo per il piacere di stonare. Tuttavia, al di là dei toni e delle forzature, i contendenti dovrebbero rendersi conto che nessuna delle cinque cose in ballo -referendum, Pd, Renzi, governo e legislatura-, dovrebbe essere affrontata alla stregua di un giudizio di Dio: si va soltanto verso il più modesto e tranquillo giudizio del popolo sovrano. Non ci sarà, perciò, alcun diluvio universale dopo il 4 dicembre, vinca il sì oppure vinca il no. E il Pd non finirà in alcuna arca di Noè. Dovrà, più mestamente, continuare a confrontarsi con altre forze politiche nel mare della democrazia italiana, imperfetta, ma insuperabile. Lo stesso Renzi, poi, sarà leader finché avrà il consenso politico nel Pd e quello degli italiani al voto, quando sarà: nessuna scorciatoia, neppure referendaria o con un Italicum addolcito, potrà cambiare la realtà delle cose, che è molto meno agitata di quanto possa apparire. “Un accordo vero”, hanno chiesto i dissidenti al loro mai amato segretario, lasciando intendere che si è a un passo dalla rottura. E lui, più che tendere la mano ai vari Bersani, Cuperlo e Speranza orientati al “no” al referendum, sembra averli messi con le spalle al muro. La partita nel partito è durissima. Ma, comunque finirà, non dovrà e non potrà in alcun modo trascinare l’Italia.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi