Tagliare con l’accetta, cioè con un referendum, la diversità di vedute sulla cittadinanza, non è un buon servizio che si rende a quel milione di ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia da genitori stranieri e italiani di fatto, ma non ancora di diritto. Così com’è grottesco lo scontro ideologico in pieno corso fra i paladini dello ius sanguinis e gli assertori dello ius soli. Sono due modi, entrambi civili e fondati su solide argomentazioni, con cui le legislazioni di tutto il mondo affrontano la questione, e quasi equivalenti, quei modi, per numero di Stati che adottano un modello oppure l’altro.
Non c’è una maniera “sbagliata” di guardare alla cittadinanza e un’altra “giusta”: tutte due, ius sanguinis e ius soli, sono frutto della storia, della geografia, della cultura non solo giuridica di Stati per la maggior parte liberi e sovrani, e perciò da rispettare, anziché da liquidare con sufficienza per puro politicismo (come se la cittadinanza per discendenza fosse “di destra” e quella per nascita sul suolo “di sinistra”: almeno il Parlamento ci risparmi simile pantomima).
In realtà, bisognerebbe partire da una elementare constatazione: l’attuale legge sulla cittadinanza è una buona legge. Ma è del 1992 e perciò esige non un cambiamento rivoluzionario, né il taglio alla cieca a cui è costretto il meccanismo referendario, che può solo abolire, e che Dio ce la mandi buona con quel che resta. All’attuale normativa serve, semplicemente, un aggiornamento di buonsenso. Il buonsenso di come consentire ai minori, figli di mamma e papà non italiani, che frequentano le scuole della Repubblica, di diventare italiani, se lo desiderano e i loro genitori lo chiedono formalmente.
Non già partire dall’alto e dagli adulti ma, al contrario, dal basso e dai bambini e ragazzi, cioè dalle persone indiscutibilmente più integrate nella società italiana. Perché si sono formate giorno dopo giorno e per almeno 8 anni consecutivi -8 anni può essere un tempo ragionevole- tra i banchi di scuola italiani e tra compagni di classe che studiano l’Italia in Italia, tra insegnanti che comunicano italianità ed educano all’Italia, a prescindere dalla provenienza dei genitori di questi minori.
Per introdurre la necessaria ed equa novità, basta un emendamento di due righe alla legge del 1992. E fine della partita strumentale sul terreno politico: qui si gioca sul campo del civismo e dell’identità italiana, che non possono essere definiti a colpi di “sì” o “no”. E’ il fondamento stesso della Nazione, prima ancora che della Repubblica, e perciò merita una scelta ponderata e il più possibile d’intesa tra maggioranza e opposizione.
Sui bambini non sarà difficile che si trovi un accordo sullo “ius Italiae” -quale in realtà si prospetta-, tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein, tra Antonio Tajani e Giuseppe Conte, fra Carlo Calenda, Matteo Renzi e perfino lo stesso Matteo Salvini, il più recalcitrante, oggi, sul tema. Con prudenza e lungimiranza, perché l’italianità è quel che siamo e che abbiamo: condividere la nostra identità con chi vuole condividerla, e di fatto l’ha già acquisita spesso con ancor più amor di Patria di noi stessi, come succede a scuola con i figli minori di stranieri, è cosa buona e giusta.
E poi passare da un estremo all’altro (dai 10 anni di attuale residenza, più almeno 3 o 4 per ottenerla in concreto, cioè 14 anni, ai 5 del quesito referendario) è un errore. Un errore evidente, perché finirebbe per equiparare la cittadinanza al permesso di soggiorno, che lo straniero può richiedere proprio dopo 5 anni di regolare permanenza. Un automatismo che metterebbe sullo stesso piano due situazioni molto diverse tra loro.
Lo “ius Italiae” è il più solido punto di incontro fra atto di giustizia e interesse nazionale.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma