Ecatombe, strage, catastrofe. Neanche ricorrendo alle parole estreme si può raccontare la tragedia più grande di sempre alle porte di casa. Novecento migranti annegati nel canale di Sicilia perché il barcone sul quale viaggiavano, stipati come bestie, si è ribaltato. Loro, i fuggitivi della guerra e della fame, avevano visto avvicinarsi la nave che li avrebbe salvati. Sembra, perciò, che si siano tutti spostati dal lato del mercantile in arrivo. E così il peschereccio di venti metri per trenta che li trasportava, si sarebbe rovesciato. Appena ventotto i superstiti ripescati, letteralmente. L’ultimo carico dei disperati è stato inghiottito tra le onde del Mediterraneo, il “Mare Nostro” per noi che siamo vivi e per loro che sono morti.
Dall’Onu al Papa inascoltato (“cercavano la felicità”), dalla denuncia del Quirinale alla richiesta del governo italiano che esige un vertice e una mobilitazione dell’Europa, tutti ormai capiscono due cose elementari: che salvare chi scappa dalla miseria e dalla violenza è un dovere. E che un Paese solo, il nostro, non potrà mai farcela senza l’aiuto organizzativo, economico e soprattutto politico dell’Unione europea e della comunità internazionale.
E allora forse c’è una parola per riassumere, novecento morti dopo, il ventennio di naufragi fra l’Africa e l’Europa, cioè fra la Libia e l’Italia in particolare: genocidio. Come europei stiamo assistendo alla drammatica scomparsa in massa di un’intera generazione di perseguitati, di sfruttati dalla criminalità scafista, di donne, bambini e giovani profughi che sono alla mercé della schiavitù contemporanea. Della quale tutto si conosce, dalle rotte in mare seguite a chi le organizza, al volume degli affari sulla pelle della povera gente.
La scelta, dunque, è semplice: intervenire tutti insieme, intervenire subito. Non ci sono alibi per quei rappresentanti delle istituzioni europee che continuano a non vedere ciò che la televisione butta ogni giorno dentro le loro case, mentre sono seduti comodi in poltrona. Non possono più restare a guardare. Qui è in ballo un principio condiviso di civiltà, che non si baratta per una campagna elettorale, né si travisa con cinismo per pura polemica politica. Quei settecento morti “ammazzati” viaggiavano semplicemente per un sogno di sopravvivenza. E non l’hanno neppure realizzato.
Il mondo che conta e che può, ha il dovere di reagire. Altrimenti sarà complice del nuovo genocidio.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi