Laura Ravetto: vi racconto una storia sconosciuta ma importante, l’Italia in Afghanistan

Laura Ravetto è nata a Cuneo e ha trentotto anni. Laureata in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, ha esercitato come avvocato di diritto internazionale in Italia e all’estero, prima d’essere eletta, e rieletta l’anno scorso, alla Camera dei deputati per il Popolo della libertà. Al congresso del partito è stata nominata responsabile nazionale del settore comunicazione, immagine e propaganda. E’ presidente della delegazione italiana presso l’assemblea parlamentare dell’iniziativa Centro-europea. 

 

Lei è da poco rientrata dall’Afghanistan, dov’è andata in missione istituzionale. In quel Paese s’è appena votato (e si continua a sparare). Che situazione ha trovato? 

“Siamo stati proprio nelle due basi di Herat e di Farah, dove si trovano i nostri soldati. Alla vigilia di queste elezioni decisive, e dopo la tragedia dell’attentato che è costato la vita al paracadutista Alessandro Di Lisio, volevamo renderci conto di come stessero le cose. E capire anche le modalità degli attacchi che colpiscono i militari dei Paesi mobilitati per rassicurare la popolazione”.

Avendoli visti “sul campo”, qual è il compito operativo degli italiani?

“Sono lì non soltanto per portare la democrazia (attenzione: portare e non riportare), ma per costruire. Strade, scuole, ospedali. Sono lì per rendere praticabile quel territorio in modo sicuro. Con la gratitudine della popolazione coinvolta. L’immagine che resterà di questo voto, sarà quella di un papà col bambino in braccio. Un padre che ha voluto farsi filmare mentre andava alle urne. Esiste la concreta speranza del cambiamento. La speranza che si possa passare dalla coltivazione dell’oppio a un sistema agricolo di stampo quasi occidentale”.

Ma che sensazione ha ricavato dalle visite alle basi italiane?

“Ricordo l’avamposto di Farah circondato dalla montagna. Una sensazione di solitudine. Ma quel presidio italiano è fatto di gente motivata, dalla grande professionalità”.

Gli afgani come ci guardano?  

“Di recente quaranta capi tribù sono stati riuniti tutti insieme. Fra loro sembravano prevalere tre scuole di pensiero, per così dire. Quella di chi sosteneva di non volere alcuna presenza occidentale. Quella di chi invece la richiedeva, ma solo in occasione dell’appuntamento elettorale. Per renderlo possibile. Infine, il pensiero di chi sollecitava i militari a restare dopo il voto, per garantire non solo la sicurezza del Paese, ma anche la sua ricostruzione in tutti i sensi”.

Che cosa chiedono in particolare?

“Chiedono dottori, per esempio. Lì le donne muoiono ancora per un parto. Mi domando, comunque, quanto questi capi tribù siano realmente rappresentativi della popolazione. Una popolazione che ha scelto di votare con coraggio, nonostante le pesanti minacce dei talebani”.

Qual è il rischio maggiore?

“Ci hanno spiegato come avvengono gli attentati. Però quello che forse più mi ha colpito, parlando coi nostri soldati sul posto, è che in Italia non venga da tutti compreso il senso della missione. L’intero Paese deve offrire un sostegno permanente ai ragazzi in divisa”.

Che cosa risponde alla domanda dell’uomo della strada, “ma che ci stiamo a fare in Afghanistan”?   

“Nel 2001 c’era il pericolo che quel Paese diventasse una base di addestramento per il terrorismo. Guai se l’Afghanistan cadesse in mano ai talebani! E’ gente, ricordo, che fra altre cose ha chiuso tutte le scuole femminili. L’effetto immediato di un loro ritorno s’avrebbe sul vicino Pakistan. Bisogna impedire che gli afgani finiscano in balia dei terroristi. Come ha detto il ministro degli Esteri, Franco Frattini, questa è la missione più importante per la credibilità della Nato. Sicurezza e ricostruzione”.

Bossi ha detto che, dopo le elezioni, i soldati dovranno tornare a casa. Pure su questo vi farete condizionare dalla Lega?

“Una cosa sono le dichiarazioni sull’onda delle emozioni, altro è il punto di vista condiviso e fondamentale sulle garanzie militari che hanno consentito lo svolgimento delle elezioni. Senza il presidio dei soldati, non sarebbe stato possibile allestire seimila seggi. Centomila militari stranieri e ottantamila gli afgani: l’attitudine e i tempi della presenza militare dipenderanno dall’esito del voto. Ma concordo con Frattini: oggi non si deve parlare di un piano per andare via”.

Adesso ci racconti dei nostri soldati: chi sono e che cosa fanno in concreto?

“A costo della retorica, dico che sono ragazzi eccezionali, con forti ideali. Ragazzi seri, del Nord e del Sud. Preparati e determinati. E poi ho incontrato tante donne. Liberamente, queste donne hanno superato la questione delle pari opportunità. Ormai incarnano la pari dignità. Alcune mi dicevano: sa, onorevole, quant’è penoso quando i giornalisti vogliono intervistarci a tutti i costi come se fossimo diverse”. L’integrazione tra donne e uomini è ottima”.

Come sono i rapporti fra ufficiali sul campo e governo a Roma, e tra militari italiani e alleati in Afghanistan?

“Ho visto ufficiali in gamba ed esperti. Nella mia visita col ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ed esponenti della maggioranza e dell’opposizione (rispettivamente Paglia da una parte, Pinotti e Del Vecchio dall’altra), abbiamo pure pranzato coi soldati. Ma, un minuto dopo, i soldati erano già ai loro posti. Massimo impegno anche nel giorno della delegazione arrivata dall’Italia”.

Qual è stato il messaggio politico di quella visita?

“Non ho dubbi: che il voto in Afghanistan doveva essere ciò che si è rivelato, nonostante le tante difficoltà: un appuntamento fondamentale per poter passare dall’evento elettorale al processo democratico. Gli afgani devono aver il diritto a scegliersi il presidente della Repubblica. Questa è la vera alternativa alla violenza di sempre. E il fatto che i talebani abbiano minacciato gli elettori, è stato molto significativo: vuol dire che essi temono veramente questo sviluppo in corso”.

A lei com’è venuto in mente di fare politica, e di farla in un partito, già Forza Italia, con un uomo solo al comando?

“La spinta mi è venuta al Liceo. Un professore di filosofia fortemente di sinistra ha stimolato la dialettica, cioè mi ha paradossalmente spinto a impegnarmi. Poi nel concreto esercizio della professione di avvocato di diritto internazionale in grossi studi e lavorando all’estero, mi sono appassionata. Perché piano piano ho dovuto confrontarmi col settore pubblico, con i decreti, con le normative e così via. Nascevo liberale, e Berlusconi ha interpretato i valori liberali. La libertà tua ha un solo limite: quella degli altri”.

Il libro della vita, prima che la vita sfociasse nell’impegno politico?

“Il Gattopardo, che ho riletto molte volte. Mi affascina per come è scritto”.

Il film della vita?

“C’era una volta in America. Per il senso dell’amicizia, che va al di là delle ombre del film”.

L’uomo della vita ? (la prego: non dica, scontatamente, Berlusconi…). 

“Allora gliene dico tre: il mio fidanzato, mio padre e, mi spiace ma è proprio la verità, Berlusconi. Ma vorrei dire anche delle donne della mia vita”.

Passi per una.

“Mia madre. Persona di rara intelligenza. Ma molte e molti altri mi hanno sempre dato qualcosa di fantastico. Io negli altri Vvdo le cose positive”.

L’ha evocato e perciò le tocca. Berlusconi ha detto che il governo spesso non è capace di comunicare quello che fa. Ce l’ha con lei? 

“Ma no, io mi occupo del partito. Potrei essere tirata in ballo per eventuali falle nel partito”.

Dia un suggerimento per la “buona comunicazione” ai suoi colleghi di governo.

“Forse più coralità. Forse maggiori notizie e conferenze sulle riunioni del Consiglio dei ministri. Faccio un esempio. Sono state consegnate molte case in Abruzzo. Poi, però, prevalgono le polemiche magari per le dichiarazioni sull’opportunità o meno di cambiare l’inno di Mameli. In questo senso intendo la coralità, che può evitare fraintendimenti”.

L’opposizione vi accusa d’essere degli straordinari venditori di fumo. Perché nel governo prevale il dire sul fare?

La Ravetto s’arrabbia e mitraglia: “I rifiuti di Napoli, l’intervento in Abruzzo, la triennalità della finanziaria, l’abolizione dell’Ici, la messa in sicurezza del sistema bancario, la sicurezza, la rivoluzione di Brunetta nella pubblica amministrazione, i primi accenni alla meritocrazia nella pubblica istruzione. Spero che, dopo il suo congresso, il Pd sarà finalmente più costruttivo. Invece di dire che noi non facciamo, dovrebbe dire: noi avremmo fatto in quest’altro modo”.

La politica è una scelta di vita o una parentesi nella vita? 

“La politica si fa fuori e dentro le sedi preposte. Per me è determinante. Inscindibile dalla mia vita”.

Nel 2011 celebreremo i 150 anni dell’unità politica d’Italia. Qual è la cosa più importante, oggi, di questa ricorrenza?

“Io ho un fortissimo senso della nazione e una propensione alla globalizzazione. La cosa più rilevante? La centralità di valori condivisi. La fierezza di essere italiani, come gli americani sono fieri d’essere americani”.

Secondo i leghisti, i soldi per le celebrazioni della patria sono soldi buttati via. Secondo lei?

“Ogni tanto la Lega fa dichiarazioni che probabilmente “provocano” certe tematiche. Ma non vanno prese alla lettera. La Lega ha bisogno di discutere, ma nel merito dei problemi è sempre collaborativa. La Lega va giudicata non per quello dice, ma per quello che fa. Su questo piano i leghisti sono buonissimi alleati. Anche sul territorio”.

Chi è l’italiano che meglio ha incarnato l’unità della nazione?

“Cavour e poi Degasperi”.

S’inventi un motto per le celebrazioni, lei che di questo, del comunicare si occupa per ruolo.

“Così su due piedi? Non ho grandi motti, ma nel cuore sento da sempre una missione: la libertà. Direi così, allora: “Libertà e merito, l’Italia che dovremmo avere”.

Pubblicato il 23 agosto 2009 sulla Gazzetta di Parma