Gli spari, il sangue che dall’orecchio colpito scivola sulla guancia destra, le guardie del corpo che lo circondano per proteggerlo e lui che, alzando il pugno, grida “fight!”, lottate!, alla sua incredula gente in comizio prima d’essere portato via di gran peso.
Le sequenze del grave attentato subìto in Pennsylvania dall’ex presidente Donald Trump e candidato repubblicano per tornare alla Casa Bianca, resteranno impresse nella memoria di tutti come quelle dell’uccisione di John Kennedy nel 1963 o del tentato omicidio di Ronald Reagan nel 1981.
La violenza in America non ha mai risparmiato nemmeno i suoi presidenti, ma stavolta le immagini in mondovisione e la pronta indignazione e solidarietà a Trump espresse da tutte le personalità di ogni nazione e istituzione -compresi i nostri presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e presidente del Consiglio, Giorgia Meloni-, svelano qualcosa di ben più drammatico: quanto sia facile e allarmante passare dalle parole di odio al fuoco di un fucile semi-automatico. Come quello puntato dall’indisturbato cecchino Thomas Matthew Crooks, un ventenne che detestava apertamente Trump -pur registrato nelle liste elettorali repubblicane, ma con una donazione fatta tramite una piattaforma democratica-, e che è stato ucciso dai servizi di sicurezza (dopo che lo sparatore aveva già ammazzato un partecipante al comizio e ferito altri due). “L’attentatore di mio marito è un mostro”, dice Melania Trump.
Lo choc universale e la polemica per l’insicurezza che ha mostrato il dispositivo di polizia pur speciale per un ex presidente, non possono nascondere il tema di fondo. Che non è la possibile svolta elettorale che Trump, guerriero ferito e perciò da ieri ancor più pugnace (“non mi arrenderò mai”, già annuncia), può trarre con l’indebolitosi presidente Joe Biden, in lotta prima di tutto contro le capacità operative dei suoi 82 anni. Un problema per gli stessi democratici, molti dei quali spingono per il suo ritiro e un cambio in corsa.
La vera questione che pone l’attentato è l’inaccettabile “politica dell’odio” da tempo regnante negli Stati Uniti. Dove Trump e Biden si considerano, e li considerano, non avversari, ma nemici l’uno dell’altro. Tant’è che fa notizia l’atto civile di Biden, che telefona a “Donald” -come stavolta lo chiama-, per essergli solidale e dire che l’America non può tollerare la follia della violenza: il Paese “deve restare unito”.
Ecco la chiave per disarmare i cecchini, ma soprattutto gli animi: tornare a considerare la competizione per la Casa Bianca -mancano solo cento giorni- non il giudizio di Dio, ma la libera espressione del popolo americano. Polemizzare sulla diversità dei programmi e dell’America opposta che si delinea a seconda del vincitore, non solo sulla personalità degli sfidanti, per quanto sia indigeribile per l’“altra parte”.
Riscoprire la politica è l’antidoto contro la violenza.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova