Quando Neil Armstrong sbarcò sulla luna, nell’alba italiana del 21 luglio 1969, ore 5.56, disse parole ormai celebri: “Un piccolo passo per l’uomo, un salto gigantesco per l’umanità”. Quando Luca Parmitano lasciava la Stazione internazionale per la prima passeggiata di un italiano nello spazio, lo scorso 9 luglio, l’annunciò così: “Esco a fare due passi”. La seconda passeggiata ha dovuto invece interromperla per una perdita d’acqua nel caso. Un’ora anziché le sei previste per Luke Skywalker, come gli americani hanno ribattezzato il nostro astronauta, paragonandolo all’intrepido eroe di Guerre Stellari.
Ma le parole e le storie tanto diverse di Armstrong e Parmitano rivelano non soltanto che sono passati più di quarant’anni tra la missione dell’Apollo 11 e quella, in corso, denominata “Volare”. Rivelano soprattutto che con i suoi astronauti -e presto astronaute: Samantha Cristoforetti-, l’Italia è grande protagonista della svolta che sta segnando la ricerca internazionale: non più conquistare, ma vivere tra le stelle. Con l’obiettivo lontano, ma neanche troppo (una ventina d’anni?) d’arrivare su Marte. Del resto, il cinema l’ha già anticipato con Brian De Palma, che filmò e firmò “Mission to Mars” nel 2000.
Siamo, dunque, al rovesciamento della prospettiva che per decenni ha interrogato e angustiato gli abitanti della Terra: non più l’ipotesi d’avere i marziani tra noi, ma quella d’andare noi a trovarli a casa loro. Il pianeta rosso quale mèta successiva della romantica e bianca luna, satellite naturale del nostro pianeta che forse un giorno farà da trampolino, con qualche quartiere “umano” costruito sui crateri, per esplorare l’universo senza l’avanti e indietro dalla Terra.
Sogni, tanti sogni. Ma è bello sapere che in questo domani difficile perfino da fantasticare, gli italiani abbiano un ruolo decisivo e riconosciuto. Con piloti-scienziati e alta tecnologia come satelliti e lanciatori.
Per capirlo basta visitare Cape Canaveral, in Florida, la base di lancio dei programmi spaziali Apollo e di assemblaggio degli Shuttle oggi in pensione. E’ l’ultima frontiera americana, che rivendica le sue radici piantate sopra il cielo nella tradizione italiana fra la terra e il mare. Frasi, foto e tabelle esposte per raccontare l’epopea, indicano l’inizio dell’”esplorazione nel Nuovo Millennio” in quattro tappe e quattro nomi a noi familiari. Questi. Tra il 1271 e il 1292 il viaggio di Marco Polo fra l’Europa e la Cina. Nel 1492 Colombo attraversa l’Oceano e scopre l’America. Nello stesso anno Leonardo disegna una macchina volante. Nel 1610 Galileo scopre il satellite di Giove. Come se non bastasse, a Cape Canaveral mostrano Genova sulla mappa d’Italia, identificandola come “la patria di Cristoforo Colombo”.
E’ quasi un devoto riconoscimento ai pionieri del viaggio “verso l’infinito e oltre”. Che è anche il motto di un altro film d’animazione della serie Toy Story, gridato dall’astronauta-giocattolo Buzz Lightyear. Un nome ispirato proprio a Buzz Aldrin, pilota del modulo lunare nella prima missione del 1969. Tutto torna: l’America e l’Italia, il sogno e il cinema.
Era il 1992 quando lo Shuttle Atlantis portava il primo italiano nello spazio con altri sei membri di un equipaggio americano-europeo. “Ai miei tempi s’andava e si tornava, non c’era una spiaggia su cui posarsi”, mi ha raccontato, spiritoso, Franco Malerba, il protagonista, alludendo alla Stazione Spaziale dove oggi, invece, s’alternano cosmonauti per sei mesi di fila. Ma allora era più difficile decollare o rientrare? “Decollare”, spiegava Malerba. “Era come scalare la montagna. Tutto succedeva in otto minuti di coraggio e di paura. Invece al ritorno, anche se c’era una sola possibilità, anche se la navetta bolliva perché i suoi strati esterni arrivavano a duemila gradi di temperatura per l’attrito con l’atmosfera, anche se si sobbalzava e si vedevano lampi e fiamme attorno allo Shuttle, si tornava a terra. E questo ci dava l’euforia”.
Ventun anni dopo, il suo collega Parmitano, può passeggiare e non solo abitare. Può parlare in collegamento coi familiari e rispondere ai piccoli pazienti dell’ospedale Bambin Gesù di Roma. Che gli hanno fatto tenere domande da adulti: “Chi ti cura se ti ammali?”. E lui: “Ognuno di noi fa un corso di pronto soccorso. Ormai sono un mezzo dottore anch’io”. Scienza e poesia s’incontrano e s’incrociano lassù. Con Dante, Parmitano può dire davvero d’essere “uscito a riveder le stelle”.
Ma la missione del sesto astronauta italiano nello spazio, e quinto nella Stazione che fa da casa, ufficio e dormitorio, prevede una ventina di esperimenti per migliorare le esplorazioni nel futuro. Insieme con un cosmonauta russo e un’astronauta americana (altra novità: i nemici e concorrenti di un tempo oggi collaborano), Parmitano sta facendo lo scienziato e il muratore dell’abitazione. Una specie di ristrutturazione volante per renderla più adatta alle esigenze della ricerca che cambia. Usando moduli, attrezzature e perfino cibo italiani. I nostri saperi e sapori offerti all’universo, e anche questo dà l’idea del nuovo corso della prima missione “a lunga durata” assegnata all’Agi, l’Agenzia spaziale italiana. Oltre al pioniere Malerba, sfilano i nomi di Umberto Guidoni, Maurizio Cheli, Paolo Nespoli e Roberto Vittori che hanno aperto la via tricolore verso lo spazio. Per Luca Parmitano dalla partenza con la navetta Soyuz lanciata il 28 maggio alle 22.31 dal Kazakistan al rientro, saranno passati 178 giorni. I 178 giorni che cambiarono il mondo.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi