Forse non è un caso se, nell’anno dei 150 anni dalla morte del Manzoni -come siamo abituati a chiamare con familiarità Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni-, la lingua italiana festeggi i suoi 1063 anni di vita. Da una parte c’è il primo documento in volgare italiano del celebre Placito capuano che nel 960 attesta la nascita dell’italiano. Dall’altra i Promessi Sposi, il primo e più letto romanzo storico nella nostra lingua capace di raccontare e far riflettere, cioè di essere allo stesso tempo comunicativo (“quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno…”) e di evocare il senso della vita, loro e nostra, che accompagna la travagliata storia di Renzo e Lucia.
Ma tra la nascita dell’italiano e il suo sviluppo nell’attualità c’è un filo rosso come l’amore: noi siamo figli delle parole, infatti musicali, “dove il sì suona”. La moderna Nazione italiana è frutto della sua lingua antica alla quale il Risorgimento, cioè l’epoca vittoriosa del Manzoni, ha dato uno Stato, nel 1861, col sacrificio della meglio gioventù del tempo.
E’, dunque, dall’unità d’Italia che libertà e lingua sono sorelle, e che perciò il Manzoni è un padre della Patria accanto a Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele II.
Lo aveva capito un altro grande italiano, il nostro Verdi, che proprio al Manzoni dedicherà la sua Messa da Requiem. Sarà eseguita il 22 maggio 1874, un anno dopo la morte dello scrittore e poeta nella Chiesa di San Marco, ossia nella sua Milano. Con un coro di 120 artisti e un’orchestra di 100 musicisti diretta da Verdi in persona.
Quel giorno il Maestro suggella per sempre la terza caratteristica dell’identità italiana: oltre alla libertà e alla lingua, la musica. Il Belcanto, l’espressione più universale di una lingua che canta da sé, perché tutte le sue parole finiscono con una vocale.
Certo, l’italiano che parliamo oggi, e che continua a renderci fratelli e sorelle da Nord a Sud e ovunque nel mondo qualcuno ci saluti col “Buongiorno”, è frutto anche della televisione degli anni Cinquanta.
Ma il salto plurisecolare da Dante al Maestro Manzi, il passaggio dalla medievale Divina Commedia al professore che in tv insegnava l’italiano a un popolo che nel dopoguerra era ancora diviso dai dialetti, ha una fermata decisiva: la stazione che il Manzoni ha voluto costruire a colpi di scrittura con il fiorentino parlato. Anche con la sua penna la Nazione italiana bussava alla porta di uno Stato ancora mancante. Lui “inventa” una prosa narrativa per rivolgersi a tutti: è un’arma popolare di autentica liberazione nazionale.
Scrive lo stesso Manzoni: “Tra chi parla e chi ascolta, tra chi scrive e chi legge, ci deve essere, di necessità, un linguaggio comune”. Lo scrittore punta a trovare “un mezzo di comunicazione d’ogni sorta di concetti fra tutti gli italiani”. Lingua non più soltanto letteraria o intellettuale, ma di popolo. Perché se un popolo può esprimersi allo stesso modo, cioè essere consapevole di sé, gli sarà più facile volersi bene e battersi per sentirsi unito e indipendente a casa sua.
L’amore del Manzoni per l’Italia fu sempre pari all’amore per la lingua. Il diritto alla Patria sulla punta della lingua, prima ancora che delle baionette contro gli oppressori dell’epoca.
Ed è questo -la lingua italiana- il lascito più potente che dal Placito capuano a Dante, dal Manzoni a Verdi, dalla tv di Manzi al Belcanto universale, ciò che si trova alla fonte dell’Italia una e indivisibile.
La sola e vera “autonomia differenziata” è rappresentata dalla lingua nazionale, perché consente al nostro Paese libero, unito e progredito d’essere riconosciuto e amato ovunque nel mondo per la sua inconfondibile e unica bellezza non solo di parole.
Siamo debitori al Manzoni non del nostro pur fecondo passato, ma del nostro futuro che lui ha disegnato da quel ramo del lago Como, che volge ancora e sempre a mezzogiorno.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma