Se è vero che quando l’America starnutisce, l’Europa prende il raffreddore, sarebbe opportuno prestare attenzione a una recente e storica sentenza della Suprema Corte di Washington sulla valutazione dell’etnia degli studenti per l’accesso all’Università. I verdetti del massimo organo di giustizia precorrono o suggellano quanto avviene nel Paese che cambia.
Poco importa se quell’alta corte di nomina politica sia oggi composta da giudici in maggioranza conservatrice, come in passato lo fu da giudici progressisti. Conta, invece, l’effetto potente di quel che decide.
L’ultima svolta che a fine giugno ha fatto molto discutere negli Stati Uniti, è stata la bocciatura dell’“azione positiva”, fra gli studiosi la celebre “affirmative action” che garantiva agli appartenenti delle minoranze una corsia preferenziale per l’ingresso all’Università. In sostanza, un progetto che risale al presidente Kennedy, cioè al 1961, per mettere tutti i cittadini sullo stesso piano “indipendentemente dalla loro razza, credo, colore o origine nazionale”. Grazie all’“azione positiva” molte porte dell’istruzione superiore si sono aperte, negli anni, agli studenti non bianchi di comunità discriminate (ieri la comunità nera, oggi anche quella ispanica).
Quel privilegio s’è rivelato un atto di giustizia: ha consentito a tutti, anche a chi proveniva da famiglie e ambienti sociali sfavoriti, di concorrere alla pari e di vedere riconosciuto sul serio il diritto allo studio.
Pur con le sue contraddizioni anche violente tuttora irrisolte, l’America è molto cambiata. Così cambiata, che Barack Obama ne è diventato il 44esimo presidente per 8 anni, cioè riconfermato (dal 2009 al 2017).
Ma proprio questo ha trasformato quel criterio dell’etnia come vantaggio per le ammissioni universitarie nel suo esatto contrario: una discriminazione di fatto nei confronti degli altrettanto meritevoli studenti, però non appartenenti alle minoranze protette. Minoranze che oggi non hanno più bisogno di aiuti “eccezionali” per arrivare dove vogliono o sognano di arrivare: Obama ne è l’indiscutibile e più alto testimone.
Il concetto di “affirmative action” somiglia in modo impressionante alla proporzionale etnica in Alto Adige. Sia nello spirito -una norma prevista per garantire alla minoranza nazionale di lingua tedesca le stesse possibilità di accesso nell’ambito pubblico che fino a quel momento favorivano la comunità di lingua italiana-, sia per il periodo trascorso, una cinquantina d’anni, dal concepimento di entrambe le misure.
Ma come l’“azione positiva” negli States ha avuto il suo ciclo, anche la proporzionale etnica in Alto Adige/Südtirol doveva essere una misura eccezionale e transitoria, perché la grave disparità di trattamento fra cittadini della stessa Repubblica non può avere a lungo un fondamento costituzionale. Neppure all’interno dell’Unione europea, aggravante dell’aggravante.
Una cosa è riequilibrare il diritto ad accedere alla cosa pubblica in una parte del territorio nazionale/europeo. Altra è conservare un privilegio di etnia che mal si concilia col dovere del buon funzionamento delle amministrazioni e degli ospedali. Chi se ne importa se uno è italiano, tedesco o cinese: importa che funzionari, medici e infermieri siano bravi e capaci di comunicare in italiano e in tedesco con cittadini o pazienti.
E mal si concilia, la quota etnica, anche col riconoscimento che si deve a chi ha vinto un concorso. Cinquant’anni dopo, i principi del merito, del bisogno, del buon andamento delle istituzioni che sono di tutti e da tutti pagate, non possono più essere ignorati. Anche perché nel frattempo la minoranza di lingua tedesca non ha più nulla da temere: è ben presente e rappresentata ovunque e ha le spalle larghe per poter competere con chiunque, cittadino italiano, europeo o extraeuropeo che sia.
Non è un caso che da tempo si punti a un’applicazione “morbida” della proporzionale in settori importanti e altrimenti sguarniti. E che ora si prevedano deroghe. Perché quel meccanismo che ha assolto in pieno la sua funzione storica, oggi sfavorisce, ossia danneggia, chi non appartiene alle minoranze. Attenzione: è lo stesso ragionamento che in America ha portato al verdetto-svolta della Suprema Corte.
E’ facile immaginare che se vicende come quelle di due casi concreti alle Università di Harvard e North Carolina che hanno portato e prodotto la decisione della Suprema Corte negli Stati Uniti, arrivassero all’esame della nostra Corte Costituzionale per volontà di magistrati a cui si rivolgessero cittadini che si sentono discriminati dall’applicazione della proporzionale, sarebbe arduo per i giudici di Roma avallare una misura di tale disparità di diritti. Né considerarla, dopo 50 anni!, “temporanea ed eccezionale”.
Ecco un tema molto concreto e con effetti piuttosto pratici che la politica farebbe bene a discutere con serenità, buonsenso e soprattutto lungimiranza.
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige