A Hanau, una ventina di chilometri da Francoforte, va in scena l’ultimo atto di un crimine che si chiama razzismo. E’ sera, e Tobias Rathjen, un impiegato tedesco di 43 anni ossessionato dagli stranieri, entra in un locale dove si fuma il narghilè -tradizione d’origine mediorientale diffusa nel mondo musulmano-, per sparare alla cieca. Non soddisfatto del primo massacro, fa il bis in un secondo caffè.
Nove sono gli innocenti morti ammazzati e almeno cinque i feriti gravi, in particolare curdi e turchi. “Alcuni popoli che non si riescono a espellere dalla Germania andrebbero sterminati”, aveva teorizzato l’omicida in uno dei molti e folli documenti, anche video, che gli trovano in casa accanto al corpo della madre, a sua volta uccisa. La stessa sorte che lo stragista riserva a sé, dopo aver compiuto la scorribanda assassina intrisa di odio apertamente predicato.
“Il razzismo è un veleno, l’odio è un veleno e questo veleno esiste nella nostra società”, dichiara la cancelliera Angela Merkel, sconvolta come tutte le istituzioni non solo del suo Paese. “Un gesto di ripugnante violenza”, le fa eco il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ricorda, per contro, i principi di tolleranza, rispetto e integrazione alla radice dell’Europa.
Sull’agghiacciante delitto di Hanau gli investigatori e la stampa tedesca guardano in due direzioni: quella di un atto attribuibile solamente alla psicosi malata di un estremista di destra invasato di xenofobia e senza complici. La classica azione da lupo solitario.
E poi si guarda al contesto dell’eccidio, che rientra comunque in una sequenza internazionale di attentati contro lo straniero e il diverso da sé. Un contesto che già l’anno scorso aveva registrato i massacri di Auckland (Nuova Zelanda) e di El Paso (Stati Uniti), e prima ancora la strage di Oslo nel 2011. Una sorta di rete terroristica all’insegna di un fanatismo armato, spesso di proclamata matrice neonazista, che si alimenta di un’ideologia fondata sul pregiudizio e sul rancore.
Il razzismo dilagante sta così diventando una nuova barbarie che l’Europa ha il dovere di sradicare non solo nella sua versione sanguinaria. Come ha sottolineato lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, già premio Goncourt in Francia, siamo sempre lo straniero di qualcun altro. E prima del pur imprescindibile e duro intervento delle istituzioni, la lotta al razzismo si fa imparando a vivere insieme.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi