Dimmi che lingua parli e ti dirò chi sei? Impossibile. Già di Carlo V si diceva che parlasse in francese con gli uomini, in italiano con le donne, in spagnolo con Dio, in tedesco con i cavalli e in inglese con gli uccellini. Cinquecento anni dopo, l’Europa senza più sovrani “cinguetta” ancora con i tweet, e le lingue sono diventate un concerto della comunicazione fra i popoli. Il poliglotta parla di più e parla meglio. Ma il nuovo impero della globalizzazione ha imposto nuovi spartiti che stanno cambiando anche le parole e perciò i pensieri dei parlanti. E allora col suo “Lezioni di italiano, grammatica, storia, buon uso” (Mondadori), Francesco Sabatini torna alle origini per guardare lontano: spiega perché l’italiano è il nostro futuro della memoria. Presidente onorario dell’Accademia della Crusca, Sabatini rappresenta quella sempre più consapevole generazione di studiosi che ha cambiato musica. Non è più il tempo di restare chiusi nelle torri d’avorio a contemplare la lingua di Dante, mentre essa viene sfregiata dalle “location”, “mission”, “welfare”, ”endorsment” e via mortificando. Né il linguista Sabatini si volta dall’altra parte, se in Alto Adige si tenta di sradicare la secolare toponomastica italiana dall’obbligo del bilinguismo. Ma questa svolta di professori che non hanno paura di dire pane al pane e italiano all’italiano con appelli alle istituzioni, riflessioni sui giornali e libri firmati, ora ha anche un punto di riferimento intenso e leggero, con dialoghi e prove di lingua rivolti ai lettori. L’autore parte mettendo in discussione la convinzione che la lingua serva soltanto per parlare. “Sì, io ho una patria: la lingua francese”, diceva non per caso Albert Camus, premio Nobel per la letteratura. Se lo scrittore Vergílio Ferreira notava che dalla sua lingua portoghese “si vedesse il mare”, dalla lingua italiana si può vedere il sole. Sabatini vede l’inizio stesso della vita, perché la lingua, che lui chiama “lingua prima” -e bene fa in un mondo sempre più plurilingue-, si acquisisce “mentre il poppante succhia e assapora il latte e ascolta e registra la parola latte (se intorno si parla italiano)”.
Dunque, siamo alle fondamenta: il suono, la trasmissione del linguaggio da madre e padre, il miscuglio perfetto tra cervello e sentimento. “La lingua è dentro di te, tu sei tra le sue braccia”, per citare Mario Luzi che l’autore pone come viatico del proprio lavoro. Ma il libro è un viaggio oltre la famiglia e la nazione. Per parlare di grammatica si scomoda perfino l’Homo sapiens “col suo ben formato linguaggio verbale”. Attenzione, perché siamo a duecentomila anni fa.
Per fortuna Sabatini ci riporta presto alle più vicine radici del greco e del latino, rispettivamente il pensiero analitico e critico e la civiltà sociale e giuridica di cui siamo figli dei figli, noi che abbiamo il privilegio di misurarci con la “meravigliosa potenza” della lingua italiana. Interessante e anticonformista, rispetto a certa retorica, l’incursione nei dialetti. “Si possono imparare dalla realtà, non s’insegnano” (a scuola), così liquida la pratica.
Ampie e documentate le considerazioni sull’anglismo, tema affrontato con lo sguardo di chi conosce come va il mondo. Da sempre le lingue si sono felicemente contaminate fra loro. Scrive il linguista: “Fiumi di parole germaniche entrano nel tardo latino e nei volgari che ne stavano derivando. Un mare di francesismi di livello colto diffuse l’Illuminismo. Un’ondata di ispanismi nel pieno Cinquecento e nel Seicento. E da parte italiana dall’Umanesimo in poi è venuto un forte apporto in tutte le lingue del continente nel campo delle arti, della musica e, non si direbbe, delle armi, e più di recente nella gastronomia”. Lingue vive, tutte, lingue che si arricchiscono l’una con l’altra. Ma l’anglismo che ferisce la millenaria lingua italiana non è bella mescolanza. “La quantità dei vocaboli, la velocità del processo e l’atteggiamento della massa dei parlanti”, spiega l’autore, ne fanno un caso speciale. Unico al mondo, aggiungiamo noi, perché in tutte le aree linguistiche dell’universo gli anglismi vengono resi con traduzione o adattamenti grafici e fonetici nella lingua del posto. “Ordenador” o “computadora”, mai “computer” nel pur variegato mondo di lingua spagnola. Sabatini, che pur considera lodevole “lo stile asciutto della prosa inglese”, se confrontato alla prolissità di certa italica burocrazia, contesta l’”assordante propaganda per l’apprendimento dell’inglese”. E pone quattro quesiti fulminanti al provincialismo del ceto dirigente che usa vocaboli in inglese per parlare in italiano: “Sei veramente padrone del significato di quel termine? Lo sai pronunciare correttamente? Lo sai anche scrivere correttamente? Sei sicuro che il tuo interlocutore lo comprende?”. A domanda lo stesso autore risponde: “Quando anche uno solo di questi requisiti non è rispettato, vuol dire che stai facendo una brutta figura. Oppure che usi quel termine per pigrizia. Oppure che disprezzi il tuo interlocutore”.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma