E’ la riforma più importante della legislatura. Chi oggi voterà per ridurre di ben 345 componenti il Parlamento, non solo lo farà “per sempre”, cioè prenderà una decisione destinata a pesare per anni e praticamente intoccabile, trattandosi di una modifica addirittura della Costituzione. Ma raggiugerà anche un obiettivo mancato da tutte le maggioranze di destra e sinistra. Da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, preceduti da una decina di altri tentativi falliti dal 1983 in avanti.
Eppure, il passaggio dai 945 attuali parlamentari ai 600 previsti (400 deputati e 200 senatori) rappresenterà un doppio banco di prova.
Il primo esame sarà per quei partiti che, dai Cinquestelle alla Lega, hanno fatto del proclama “contro privilegi e poltrone” i loro cavalli di battaglia: adesso che l’ultima corsa è arrivata alla Camera, dovranno dimostrare che l’onorevole taglio più volte reclamato -e finora votato nei tre giri del testo fra Montecitorio e Palazzo Madama-, non può essere disatteso per puro cinismo politico. Come lo sarebbe, se Matteo Salvini (e Giorgia Meloni) nell’ora X cambiassero idea pur di mettere il governo giallorosso in difficoltà.
Perché il secondo e ancor più insidioso esame riguarda proprio la maggioranza. Il leader pentastellato Luigi Di Maio è riuscito a trasformare questa iniziativa tipicamente istituzionale-parlamentare in una priorità, anzi, nella priorità del governo. Mettendo così con le spalle al muro il Pd, che sul taglio e con argomentazioni non meno fondate, per tre volte aveva votato “no”. E che adesso, in cambio della promessa grillina di rivedere la legge elettorale e di ritoccare, ancora, la Costituzione per creare i contrappesi necessari a una novità di tale dirompente portata, ha accettato di ingoiare il rospo.
Ma c’è una differenza. Mentre Di Maio, salvo improbabili sorprese, potrà da oggi esibire lo scalpo costituzionale di una riduzione mai riuscita a nessuno, il Pd e alleati potranno solo sperare nelle promesse compensative. Il concreto, solido e storico risultato da una parte, a fronte di impegni “annunciati”. E da negoziare, poi, in un Parlamento dove il centro-destra minaccia lotta dura per andare al voto anticipato.
Il taglio, dunque, accontenterà molti, e soprattutto i cittadini stanchi di una politica troppo spesso rivelatasi pletorica, inefficiente e costosa.
Ma senza i bilanciati equilibri, il taglio fine a se stesso e ai vincitori può diventare una mina vagante sulla già traballante legislatura.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi