La battaglia al Senato si è giocata tra sindaci e presidenti di Regione, ma la sfida era tutta interna al governo nazionale.
A suonare la carica legislativa è stata la Lega, insistendo per introdurre il terzo mandato per i governatori, e ripresentando in aula l’emendamento al decreto-elezioni che già era stato bocciato in commissione. Ma anche l’aula ha detto di no, con ciò vanificando la possibilità di una ricandidatura di Luca Zaia nel Veneto.
Per far capire -specie agli alleati- che la richiesta del tris non era un capriccio, il partito di Matteo Salvini aveva aperto anche un altro fronte di pressione, presentando un emendamento per cancellare il ballottaggio nei Comuni al di sopra dei 15 mila abitanti, se uno dei candidati raccoglie “almeno il 40% dei voti” (anziché, com’è oggi e da 31 anni, la maggioranza assoluta dei consensi).
Ma l’incursione leghista ha provocato la reazione sia del governo (“si ritiri l’emendamento”), sia delle opposizioni. “E’ uno sfregio alla democrazia”, è insorta Elly Schlein, leader del Pd. In ballo la circostanza che, fra meno di tre mesi, l’8 giugno, si voterà non solo per le europee e per le regionali in Piemonte, ma anche in 3.701 Comuni, di cui 27 capoluoghi di Provincia e 6 anche di Regione. Non si cambiano le regole a partita quasi in corso, comunque già fissata. Oltretutto in un contesto istituzionale che, così com’è stato concepito, funziona molto bene, come testimonia l’elezione diretta del sindaco introdotta nel 1993. Ha consentito la massima alternanza di partiti, coalizioni e naturalmente candidati alla guida delle amministrazioni in tutta Italia.
Poco cambia che l’emendamento contro il ballottaggio sia stato ritirato, diventando un innocuo ordine del giorno. Ciò che risulta, e risalta, è il segnale che Salvini ha voluto mandare ai suoi: rieccomi, l’esito deludente in Sardegna e in Abruzzo, dove la Lega è stata quasi doppiata in voti da Forza Italia, non cambia la musica.
La Lega tiene il punto sul terzo mandato, ma soprattutto sul ruolo politico da “bastian contrario” del centrodestra che Salvini intende continuare a ritagliarsi con mosse plateali e dichiarazioni sopra le righe: far sentire una voce dissonante rispetto a quella prevalente di Giorgia Meloni e crescente di Antonio Tajani.
Ma è un ruolo molto insidioso, quello da terzo incomodo. Perché, in verità, lo spazio della Lega per incidere si trova nel governo e non fuori.
E oggi appare irrealistica la prospettiva di ripetere l’errore storico compiuto nel 2019, quando il vicepresidente del Consiglio e vero “dominus” dell’esecutivo, Matteo Salvini, fece saltare il primo governo-Conte, sperando nelle impensabili elezioni anticipate (mai avvenute nella storia della Repubblica dopo appena un anno e cinque mesi di legislatura).
All’orizzonte incombono solo le elezioni europee: saranno gli italiani, semmai, a delineare i nuovi equilibri tra Salvini e alleati.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova