Quando il gioco si fa duro, i diplomatici iniziano a giocare. La carta politica è ancora possibile, ecco la scommessa controcorrente ma molto complicata -specie in queste ore-, che l’Italia rilancia nell’insanguinata crisi del Medio Oriente. Dove si naviga a vista in un mare di guerra senza spiragli né speranze per almeno un cessate il fuoco fra le parti in conflitto. Il linguaggio delle armi è l’unica opzione finora da tutti contemplata. E dove non arrivano le bombe, rimbombano le minacce.
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha convocato un vertice straordinario del G7 e una riunione a Palazzo Chigi con i ministri, ambasciatori e responsabili dei servizi segreti italiani più direttamente interessati all’aggravarsi della situazione. Poiché il nostro governo presiede il forum, il tentativo italiano d’intesa con i leader degli altri sei Paesi è di coinvolgere ogni istituzione internazionale, a cominciare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, per evitare “ulteriori escalation”, richiamando “tutti gli attori regionali alla responsabilità”.
Un appello che è rivolto in particolare all’Iran e a Israele, e che tiene conto anche del nostro interesse nazionale: la presenza del principale contingente con 1.200 soldati italiani (su circa 10.500 di 46 nazioni) della missione di interposizione Unifil, promossa dalle Nazioni Unite per ristabilire pace e sicurezza nel Sud del Libano e aiutare il governo del Paese a riacquistare l’autorità perduta in anni di conflitti. Pur protetti dai bunker, i nostri militari oggi si trovano in prima linea. In un contesto ben diverso, potrebbero avere un ruolo ancor più importante.
“Siamo in guerra contro l’asse del male”, sottolinea intanto il primo ministro d’Israele, Benyamin Netanyahu, alle prese con il terrorismo di Hezbollah, Hamas, Houthi e con l’attacco iraniano appena subìto in casa. Una pioggia di 180 missili, peraltro neutralizzati dal sistema di difesa. “Hanno oltrepassato la linea rossa”, commentano le autorità di Tel Aviv. Che ammoniscono: “L’Iran pagherà questo grave errore”.
S’assiste, dunque, a una spirale di azioni e reazioni senza fine “che può portare questa guerra fuori controllo”, come teme il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani. Da ciò la richiesta “a tutti, assolutamente a tutti” -precisa- di frenare il ricorso alla violenza.
Ma fra quattro giorni arriva il primo anniversario del 7 ottobre, la strage degli innocenti in Israele per mano armata di Hamas. Da allora si può constatare quanto le cose si siano solo aggravate. Sangue chiama sangue e nessuna mediazione, né americana né europea, è riuscita a fermare terrorismi e guerra.
Appare sempre più lontana la stessa soluzione dei “due popoli, due Stati” fra Israele e i palestinesi, che da sempre il mondo considerava la più ragionevole base di giustizia e stabilità per tutti in Medio Oriente.
Non è mai troppo tardi per sognare la pace. Ma per ora è solo un sogno.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova