Mancavano solo le “botte da Orban”, come viene da chiamare l’inedito scontro nell’Unione europea fra il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, appunto, politico aduso alle parole e maniere forti, e il nostro Matteo Renzi, che certo non se le manda a dire, e ama a sua volta il pan per focaccia. Forse non potendosi più sfidare a duello come nell’Ottocento, i rappresentanti dei due Paesi lo fanno a colpi di veto minacciato il giorno delle grandi decisioni a Bruxelles. Il contrasto riguarda l’emergenza che coinvolge e divide le popolazioni europee: che fare con l’immigrazione incessante, inarrestabile, insidiosa.
Orbán, si sa, sta dalla parte della paura. Rappresenta al meglio il peggio di quella fetta non piccola di opinione pubblica e di governi che vedono il migrante come un pericolo e basta. Che passano le giornate a immaginare in che modo confinarli ai propri confini. Che indicono referendum pur di solleticare la gente, già esasperata per l’incapacità dell’Unione di gestire il fenomeno, a cavalcare la tigre. L’Italia, al contrario, è percepita come il Paese-simbolo della tesi opposta, e Renzi non perde occasione per sottolinearlo: bisogna organizzarsi per aiutare i rifugiati veri che fuggono dall’inferno di guerre e persecuzioni e per rendere possibile con rigore e umanità l’integrazione dei migranti fra le ventisette nazioni (dopo Brexit). In pratica, però, questa linea frutto dell’umanesimo italiano e dei richiami del Papa che non ci lasciano insensibili, ha fatto dell’Italia, e non solo di Lampedusa, un’isola. Continuiamo solo o soprattutto noi a prenderci carico del dolore del mondo, mentre il resto del Continente fa spallucce o, peggio, alza muri. Renzi è al bivio: deve pretendere dai suoi indifferenti interlocutori non la solidarietà, che gli italiani sanno fare benissimo da soli, ma la condivisione del problema. Altrimenti a che serve l’Unione? Da ciò il ventilato veto sul bilancio europeo. A sua volta Orbán e non soltanto lui scambiano l’approccio italiano per una politica-colabrodo (non sempre a torto). L’ungherese vuole più soldi sul tema e preannuncia il veto sull’ipotesi di quote di immigranti obbligatorie per tutti i Paesi. La guerra non dei voti, ma dei veti è l’emblema di un continente alla deriva come i suoi stessi immigrati. Ma se Roma e Budapest sono ai materassi, la colpa è di Bruxelles che sui materassi continua a dormire, mentre molti arrivano, molti accolgono e molti hanno paura tra orgoglio e pregiudizio.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi