La bufera che viene da Taranto, dove si trova il più importante stabilimento per la lavorazione dell’acciaio in Europa -“ex Ilva” è il suo ormai celebre nome di battaglia-, rappresenta al meglio l’esempio di una classe dirigente che da tempo ha rinunciato a una politica industriale. Pur essendo l’Italia una delle potenze economiche in questo campo grazie all’intraprendenza e alla creatività di una società che produce, agisce ed esporta a prescindere e spesso nonostante la miopia dei governi di turno. I quali governi, oltretutto, durano in media un anno e mezzo (statistica dal ’94: in precedenza duravano nove mesi) e perciò ai grandi investitori italiani o stranieri viene a mancare di continuo il terreno sotto i piedi. Ossia quella stabilità istituzionale che consente ai ministri di seguire i grandi progetti internazionali e agli imprenditori di poter operare con regole certe e un futuro mai legato alla caduta di una maggioranza politica.
“Serve un Paese unito per salvare l’ex Ilva”, dice il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, salito al Quirinale per parlare della crisi esplosa sul colosso d’acciaio, che è diventato il prioritario interesse nazionale. L’azienda franco-indiana Arcelor Mittal che ha la responsabilità del polo industriale in Puglia, “in nessun modo s’impegna a produrre più di 4 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno e chiede 5 mila esuberi”, ha riferito il ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, in un’incandescente aula della Camera. “Andate a casa voi, non gli operai”, la protesta della Lega. Il centrodestra accusa l’esecutivo giallorosso d’aver offerto lo spunto per l’annunciato addio della multinazionale, togliendo lo scudo penale che esenta da responsabilità pregresse e altrui nell’attuazione del piano ambientale.
“Lo reintroduciamo ad horas”, rilancia il premier, che minaccia una “battaglia giudiziaria del secolo” a fronte -ammonisce- del mancato rispetto degli impegni firmati un anno fa. Impegni per una maggiore produzione, salvaguardando l’ambiente e il lavoro. Due aspetti che da anni la politica non ha saputo conciliare né programmare, aprendo la via agli interventi della magistratura. Sull’ex Ilva s’è così scatenato un balletto di decisioni conflittuali tra i poteri giudiziario e legislativo.
Ma il destino di migliaia di occupati e la loro salute non viaggiano su binari separati. Salvaguardare il primato italiano nell’acciaio significa impedire una crisi sociale e industriale catastrofica per tutti.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi