La cosa più difficile? Essere facili. Il segreto del racconto secondo Piero Angela, narratore di scienza, storia e tv

Giornalista, scrittore, grande divulgatore di scienza e di cultura anche in tv. Piero Angela è nato a Torino nel 1928 e da più di trent’anni cura e realizza programmi di qualità e di ascolto per la Rai: da Superquark a una serie di speciali, a Ulisse, di cui è autore insieme col figlio Alberto. Le due serate dedicate a Leonardo Da Vinci furono viste da oltre 7.500.000 di telespettatori. Ha pubblicato trenta libri e ideato diversi documentari naturalistici. Per la sua attività ha ricevuto otto lauree honoris causa e la medaglia d’oro per la cultura dal presidente della Repubblica, Ciampi, nel 2002.     

 

Che cosa si può narrare per televisione che non si possa narrare con la comunicazione scritta?

“Sono tecniche diverse, ma entrambi i sistemi possono narrare molte cose. La tv ha qualcosa in più e qualcosa in meno. L’immagine in movimento è insostituibile dalla parola scritta. Però la comunicazione scritta permette un tempo di lettura diverso, e quindi un approfondimento -parliamo soprattutto di libri- che la televisione non può avere allo stesso modo. Io comparo un po’ la mia doppia attività di autore di programmi e di autore di libri: tecniche simili e complementari ma differenti”.

Linguaggio e ritmo della tv facilitano il racconto o possono stravolgerlo, cioè quanto è neutrale il messaggero rispetto al messaggio?

“Dipende molto dall’autore. Se ci si lascia prendere dal gusto o dal piacere dell’immagine e si dimentica il contenuto, allora non va più bene. Bisogna trovare un giusto equilibrio tra la capacità di comunicazione che dà l’immagine del linguaggio televisivo e l’esigenza d’essere aderenti al messaggio che si vuole inviare. In altre parole essere sempre dalla parte degli scienziati per quanto riguarda il contenuto e dalla parte del pubblico per il linguaggio”.

Montanelli ricordava che i migliori divulgatori erano gli inglesi, e lui fu uno straordinario divulgatore. Succede pure con i documentari o siamo bravi anche lì?   

“La tradizione della Bbc e in generale della documentaristica inglese è certamente qualcosa di inimitabile, perché c’è una lunga esperienza. Ma non è una questione d’essere più o meno bravi. Come spesso accade, è il contesto che fa emergere anche le qualità. Se una televisione come la Bbc -ma non solo- impegna enormi risorse per la documentaristica, possiede un intero centro che io ho visitato, e dove ci sono acquari, biologi, nuove tecniche di ripresa, laboratori, e investe quindi anche sulle persone attraverso selezioni  che avvengono in tempi lungi, è evidente che i risultati arrivano. Più che fare una distinzione tra inglesi e italiani -perché anche noi abbiamo eccellenti persone-, sono le opportunità esistenti molto più da un lato che dall’altro a creare le condizioni migliori”.

L’arte del racconto: qual è il segreto per spiegare agli altri quello che spesso fatica a capire lo stesso narratore?

“Credo che sia proprio quello che dice lei. Ma è una tecnica, più che un segreto. Io dico sempre: faccio il mio percorso in salita tra le spine per capire bene le cose, in modo da farlo ripercorrere in discesa dai miei telespettatori o lettori in modo soffice. Bisogna studiare molto, lavorare molto per essere semplici. Come avverte un noto proverbio, “è più difficile essere facili”.

Chi racconta deve appassionarsi o solamente appassionare?

“Se appassionarsi significa lasciarsi prendere dalle emozioni, no. Però l’interesse personale e a volte la passione sono indispensabili per la carica anche narrativa che si vuol far partecipare agli altri. L’importane è di avere sempre il cavaliere che guida il cavallo, cioè le emozioni guidate dalla capacità critica e dalla razionalità”.

Raccontare di scienza: com’è nata questa sua vocazione?

“Ognuno di noi ha certi modi di vedere il mondo che gli sono propri. La mia è una visione razionale e quindi la scienza è proprio lo strumento ideale per riuscire a capire delle cose che in passato non si capivano, anche perché la scienza cerca di rispondere alle antiche domande dei filosofi: com’è nato l’universo, cos’è la vita e come ha preso origine, perché è nato l’uomo, cos’è una cellula, cosa c’è dentro un atomo, come funziona il cervello e pertanto il comportamento. I filosofi davano delle risposte molto personali. Oggi la scienza offre degli strumenti di indagine molto perfezionati, e si riesce a capire abbastanza bene la storia della vita e dell’universo. Poi c’è l’aspetto tecnologico, altrettanto rilevante per comprendere il ruolo che hanno l’innovazione e l’energia -cosa importantissima in particolare in questo periodo-, nel riuscire a gestire le società. Scienza e tecnologia sono due aspetti complementari di una visione del mondo che non può non interessare chi ha il piacere di capire e di scoprire. Poi le occasioni possono essere diverse. Per me l’occasione è stata, quando facevo il telegiornale delle 13.30, di seguire la preparazione dei voli che hanno portato l’uomo sulla luna. Sono stato nel centro di ricerca degli Stati Uniti per un anno e mezzo prima del volo”.

Scienza e tecnologia come si presentavano all’ombra delle stelle?

“Ho visto una ricerca tecnologica di base -per esempio i computer utilizzati, gli studi dell’esobiologia extraterrestre, la parte missilistica del volo- ma anche una grande capacità organizzativa: per mandare questi tre uomini sulla luna, sono state necessarie 600 mila persone che hanno lavorato ognuna nel proprio piccolo settore. Come in una piramide tutto questo è confluito verso i tre omini che sono poi partiti. D’altronde, l’apprendimento spesso è per errore: uno sbaglia e man mano si corregge. Ma lì non si poteva imparare per errore. Bisognava simulare prima tutte le condizioni anche avverse per poterle prevedere ed evitare. L’altro aspetto, che a me interessava di più, riguardava il centro della Nasa vicino a San Francisco. E’ un centro che studia la ricerca di base per capire che succede non solo sulla luna ma altrove -com’è nata la vita, com’è nato il sistema solare, l’evoluzione dell’universo, dell’uomo-, si pone dunque i problemi della vita fuori dalla Terra. Automaticamente si pone i problemi della vita sulla Terra, che è l’unico modello a cui possiamo fare riferimento per capire quello che avviene nello spazio”.

Qual è l’aspetto del sapere che più l’intriga?

“Io ho scritto trenta libri tutti su argomenti completamente diversi uno dall’altro e anche nei programmi televisivi ho cercato di fare cose diverse. Quello che mi interessa sono le connessioni tra vari campi, come il gioco degli scacchi: non si possono studiare solo le mosse dell’alfiere per capire la partita. Se uno sa di tecnologia, di scienza, di innovazione, di storia, di medicina riesce a capire come queste cose siano tutte espressioni di uno stesso grande gioco. Questo m’intriga. Dovendo scegliere un campo, direi quello del comportamento umano, che produce ciò che vediamo attorno a noi”.

Con quel “grande gioco” non allude a Dio. O potrebbe?

“No, quello è fuori dalla ricerca della scienza. La scienza si occupa delle cose che si sanno e non delle cose che si credono. C’è una bella massima attribuita a Confucio: “La scienza è sapere quello che si sa e non sapere quello che non si sa”.

Quale campo del sapere potrà riservarci la grande sorpresa?

“La mia esperienza di tanti anni mi porta a rispondere così: il campo che sarà in maggiore evoluzione è quello che ancora non conosciamo. Quando ho cominciato a fare divulgazione scientifica alla fine degli anni Sessanta, c’erano due settori sui quali nessuno puntava molto: uno era la microelettronica. Allora si creavano dei grandi computer destinati, si pensava, ai centri di ricerca, non certo agli individui. Difatti il presidente della Ibm diceva, famosa battuta, “questa roba qua non ha futuro perché è solo per pochi”. Oggi siamo a internet. L’altro settore era la genetica. All’epoca s’era già scoperto il Dna, però era una cosa soprattutto teorica. Sembrava fantascienza, ora è la rivoluzione non solo della medicina. Ci fu un momento in cui la fisica sembrò aver capito tutto, e ha avuto il suo secolo nel Novecento con le grandi scoperte, la relatività ecc. Pareva arrivato il tramonto, ma oggi si comincia a dire che forse ripartirà una nuova fase della fisica. Si sa, quando si sale una collina si pensa di vedere un bel paesaggio. Spesso si vedono, invece, altre colline e altre montagne da scalare”.

Ma un giornalista pur colto come lei com’è stato accolto nel mondo diffidente degli accademici e dei professori?  

“C’e stato un cambiamento senz’altro nel modo di percepire la divulgazione scientifica. Però devo anche dire che le persone di qualità e di spessore hanno sempre apprezzato moltissimo la divulgazione scientifica: se fatta bene. Quel sospetto che c’è sempre stato e c’è ancora oggi per la “traduzione” in termini semplici di studi complessi, lascia perplessi coloro che trovano  le semplificazioni troppo semplificate. Ma c’è un desiderio diffuso di comunicare quello che si fa e di aiutare il pubblico a entrare nel mondo della conoscenza, creando una cultura diversa rispetto al passato. La divulgazione è uno strumento che aiuta la cultura scientifica. Ciò che irrita gli scienziati è l’utilizzazione della scienza nello spettacolo per emozionare o per “sensazionalizzare”. Bisogna invece studiare come scolaretti e saper rivolgersi agli esperti”.

Anche suo figlio Alberto ha seguito il percorso della grande divulgazione. Quant’è cambiato il modo di vedere le cose, e di raccontarle, fra le due generazioni degli Angela?  

“Questa è la cosa bella: la scienza ha delle regole che non cambiano con le generazioni, diversamente dalla politica, dal costume, dalla società, persino dalla morale. Sei per otto fa sempre quarantotto. Il linguaggio è lo stesso, i punti di riferimento sono gli stessi”.

Con la tv è più facile riferire di attualità o di storia?

“Tutte e due ma con tecniche diverse”.

Ma al grande pubblico interessa di più la memoria o il ricordo, Roma antica o l’ultima guerra mondiale, per dire? 

“Ho quest’impressione: interessano le cose interessanti. La storia antica non interessa se è noiosa. Per l’attualità vale lo stesso. Io provo a raccontare un po’ di tutto e in vari campi, ma cercando sempre le connessioni. E facendo capire che bisogna storicizzare. Non si può giudicare il passato con gli occhi del presente né i Paesi oggi diversi da noi col nostro metro di giudizio”.

Se lei dovesse assistere a una trasmissione di un altro Piero Angela, che sceglierebbe tra Roma, il Rinascimento o il Risorgimento?  

“Come preferenza mia il Rinascimento, che è stata un’epoca straordinaria proprio perché personaggi, a cominciare da Leonardo, univano grandi qualità che oggi è difficile rimettere insieme. E cioè una cultura classica e umanistica con quella scientifica e tecnologica. Leonardo era scienziato, studiava il corpo umano, i movimenti dell’acqua, il volo. Era un tecnologo, faceva macchine d’ogni tipo. Ma era anche musicista -si componeva canzoni-, faceva lo scenografo e curava spettacoli teatrali, disegnando persino i costumi. E scriveva barzellette!”.

E nella storia degli animali, quelli che più la incuriosiscono?

“Stranamente quelli che forse interessano di meno il pubblico: gli insetti. Perché hanno delle qualità e dei comportamenti da film di fantascienza. E’ un mondo meno spettacolare, perché in fondo il mammifero è tuttora quello che piace di più: il leone, la tigre, il ghepardo…. Ma se si guarda agli insetti, ai ragni, agli invertebrati si trovano delle cose eccezionali”.

Quali sono i prossimi grandi eventi in tv a cui sta lavorando?   

“Noi stiamo preparando degli speciali, ma proprio per ragioni di “lancio” preferiamo parlarne al momento”.

Almeno il tema?

“Storia”.

Italiana, universale?

“Storia di vari Paesi….Poi riprendiamo “Ulisse” con tre nuovi programmi a settembre. Avremo, inoltre, otto repliche sulla terza rete a partire da gennaio. Mi piace ricordarlo: i nostri programmi non solo vanno in onda ma ritornano in onda in prima serata e sempre con grandi ascolti. Pensi che alle volte “Ulisse” supera, nelle repliche, gli ascolti di altre trasmissioni in contemporanea”.

Con quale programma ha ottenuto il maggiore ascolto?

“Con le due puntate su Leonardo”.

In genere affascinano di più le scoperte del passato o quello che c’è da scoprire nel futuro?

“Sul futuro non ho mai fatto moltissimo, in realtà. Nella scienza il futuro è piuttosto imprevedibile. Jules-Giulio Verne è stato uno straordinario raccontatore per l’epoca. Eppure, se lo si rilegge oggi, rimane il suo valore, ma si vede che è stato incapace di prevedere, di intuire o di immaginare cose che sarebbero accadute nel giro di pochi anni. I raggi X, la struttura della materia, la stessa radio e poi la tv: mai ne ha parlato, e tuttavia sono venuti fuori non certo secoli dopo. Anche la più fervida fantasia non riesce a descrivere il futuro. Riesce, di solito, a “prolungare” le cose che già conosce, come l’andare sulla luna, o l’andare sotto i mari. Ma quello che esce dal nostro orizzonte è inimmaginabile. In un certo senso bisogna avere i piedi nel passato e la testa nel futuro. Radici forti per capire meglio da dove veniamo, ma con la capacità di esplorare il domani per evitare di sbagliare strada”.

Pubblicato il 13 agosto 2006 sulla Gazzetta di Parma