All’orizzonte già si vedono le colline e i canneti, e la sabbia bianca su un mare sempre più smeraldo. Incatenati nella stiva, i condannati vengono liberati per salire, uno alla volta e con la palla al piede, sul ponte della motonave. Laggiù c’è cala Sinzias, l’approdo prescelto a sudest della Sardegna, dopo che un ingegnere civile per tre mesi ha perlustrato la zona a cavallo. “Tutti sulla zattera!”, ordinano le guardie, una decina di uomini armati di moschetto ma indifesi, tanto sono spaesati. E i trenta ergastolani si mettono così ai remi per sbarcare coi loro vigilanti su una costa deserta, la sera dell’11 agosto 1875. A guidare il primo manipolo di guardie e detenuti, c’è un audace di quarantaquattro anni, che tutti chiamano cavaliere, Eugenio Cicognani. E’ l’autore di un progetto così folle che per cinque anni è rimasto nei cassetti ministeriali di Roma, da poco diventata capitale dell’Italia unita. “La valle del diavolo”, chiamano quel luogo invivibile alla prova di un’idea visionaria: dar vita a una prigione aperta, pagando i carcerati per il lavoro compiuto. E prevedendo l’istruzione per gli analfabeti e un mestiere per tutti. Persino calcolando una pensione a fine pena; ammesso che la pena finisse mai.
L’iniziativa degna di un Indiana Jones dell’Ottocento doveva essere realizzata in un posto abbandonato da quasi quattro secoli. L’avventuriero Cicognani era chiamato col suo piccolo esercito di buoni e cattivi a risanare chilometri di campagna, costruendo e piantando una Colonia Penale a Castiadas come un fortino senza assediati. Perché la peste del 1500 e l’eterna malaria avevano decimato la popolazione, costringendo i pochi sopravvissuti a scappare. Castiadas dimenticata e riconquistata, Castiadas per sempre il luogo del delitto e del riscatto.
Per ottant’anni, dal 1876 al 1956, quel varco aperto a colpi di remi e forse di sogni da pionieri separati tra loro solo dal colore della divisa, ha fatto passare più di trentaseimila detenuti, che hanno innalzato la più grande Colonia Penale d’Italia. “La piccola Caienna”, la definivano i francesi con invidia per quei reclusi che non dormivano in cella, ma in ampie camerate, per l’attività agricola, artigianale, commerciale che svolgevano all’aria aperta, per lo stile umbertino e classico della costruzione, per il rapporto che si instaurava tra controllori e controllati. Ricorda Anna Palita, coordinatrice del Museo sorto nella Colonia e appassionata studiosa degli eventi: “Francesco Pezzuoli, l’ultimo direttore dal 1938, rimasto vedovo in un luogo per soli uomini, affidò il figlio piccolo alle cure di un condannato per matricidio”. Il progetto del riscatto, dunque, funzionava. Qui ai primi del Novecento arrivò per scontare e cominciare la sua mistica conversione Alessandro Serenelli, l’omicida dell’undicenne Maria Goretti, diventata santa per aver resistito al tentativo di stupro al costo della vita. Qui negli anni Trenta veniva per andare a caccia Mussolini (e immancabilmente affacciarsi al balcone della struttura). Ma venivano spediti anche oppositori al regime, che finivano nelle celle di rigore su letti di marmo o di contenzione. Tuttavia, l’originario e mai venuto meno scopo della Colonia erano i reclusi che guidavano trattori e producevano formaggio, che avevano rifinito il legno di frassino utilizzato negli aerei di Francesco Baracca, l’eroe della prima guerra mondiale. Ottant’anni di storia, detenuti e guardie che vivevano e a volte morivano insieme, come capitò soprattutto agli inizi, quando la malaria uccise in un sol giorno cinquantuno condannati. Lavoravano tutti con la palla al piede, da uno a tre chili da trascinare a seconda della pena inflitta. Fino al regio decreto del 1902 che l’abolì. Una Colonia di lavori forzati non priva di regole. Nell’orario della buonanotte, tra le 21 e le 6 del mattino, era vietato parlarsi dai letti a castello dello stanzone. Se qualcuno trasgrediva, le prime due volte scattava l’ammonimento. Alla terza disubbidienza il cartellino rosso prevedeva una settimana a pane e acqua in una delle ventisei celle di punizione sbarrate e senza sole. Una sola rivolta si registrò tra i milleduecento prigionieri distribuiti fra il corpo centrale e una dozzina di diramazioni, e cinque furono le guardie uccise. Nessuno però ricorda il perché della sollevazione in un’isola impossibile per le fughe e poco conosciuta dai non sardi, la grande maggioranza dei detenuti. E poi la terribile “cella segreta”, un buco nelle viscere dell’ospedale -c’era anche un ospedale- edificato accanto alla Colonia. Dove si poteva morire lentamente, annegati dall’acqua che cadeva dall’alto e saliva anche da un pozzo centrale fino al mento dei reclusi. Fu usata per rinchiudere sette pluriomicidi e ribelli campani, e venne murata dopo che l’unico superstite “ripescato” in tempo dalle guardie, ebbe il coraggio di denunciarne l’esistenza a un cronista dell’Unione Sarda. Che cosa resta di quegli ottant’anni della piccola, grande Caienna? Restano due prossimi anniversari, i 140 anni dalla nascita e i sessanta dalla chiusura. Resta il toponimo “Costa Rei”, la costa dei colpevoli, come oggi si chiama il territorio mèta spensierata di un turismo universale. In una sera d’agosto vide sbarcare un cavaliere, dieci guardie col moschetto e trenta uomini con la palla al piede. Dovevano bonificare per espiare. Erano gli eredi della solitudine.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma