La battaglia dello “zero virgola” sul deficit s’è dunque conclusa come volevano i Cinque Stelle e la Lega, che strappano il 2,4 per cento sul Pil (prodotto interno lordo) e lo piantano come bandiera dell’ultima trincea. A ridosso del Consiglio dei ministri, chiamato alla nota di aggiornamento sulla legge di bilancio, era stato convocato un pre-vertice per il regolamento di conti, nel doppio senso dell’espressione. Di qua il ministro dell’Economia, Tria, che intendeva resistere, mantenendo la previsione del deficit al livello più basso, ma ragionevole possibile. Per assecondare, così, la crescita di un Paese col terzo debito pubblico più alto del pianeta. Dall’altra e opposta parte Matteo Salvini e soprattutto Luigi Di Maio, i due vicepresidenti che facevano quadrato in nome di una “manovra per il popolo”, come la chiama il leader pentastellato. “Per la felicità di milioni di italiani”, secondo la versione in simbiosi del gran capo leghista.
In pratica, entrambi cercavano le risorse per le rispettive e oggi convergenti promesse elettorali: reddito di cittadinanza, tassa piatta e flessibilità sulle pensioni, rivedendo la rigida e ostica legge-Fornero.
Ma il pericolo di alzare il deficit pur di trovare i soldi per gli impegni indicati -era il senso del monito sempre attuale del ministro Tria, che per il ruolo ricoperto ha l’obbligo del vaccino contro ogni demagogia-, significa rischiare di incrementare il debito pubblico. Ipotesi nefasta per l’Italia e per la sua giusta aspirazione di tornare a correre, creando posti di lavoro, producendo, esportando meglio e di più.
E siccome il mondo ci guarda, il duro braccio di ferro nel governo, ma soprattutto l’incertezza evidente e fino alla fine sulla via da seguire, producevano intanto e subito effetto: nell’attesa del parto, il differenziale andava ieri a 237 (ed era arrivato a 250).
Eppure, il dilemma non era certo fra la presunta austerità dell’uno, Tria, e il desunto Bengodi sognato dagli altri, Di Maio e Salvini. Così come schematico appariva l’amletico “sforare o non sforare”.
In realtà, la vera posta in gioco sono la serietà dell’impresa e la credibilità dei provvedimenti che identificheranno l’Italia.
Questa “manovra del cambiamento”, come l’esalta Di Maio, andrà alla prova dei fatti, delle misure e dei mercati. Tutto il resto è ideologismo.
Osare con verità e senso di responsabilità, ecco i soli parametri a cui il governo dovrà attenersi, al di là degli zero virgola e facili entusiasmi.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi