Che di Kim Jong-un, l’autoproclamatosi “guida suprema” della Corea del Nord, il mondo libero debba sempre più preoccuparsi, è di evidenza ormai quotidiana. Non passa giorno senza che questo dittatore d’Oriente estremo lanci missili o, almeno, minacce dalla rampa sempre accesa della sua bocca. E il fatto che finora né gli uni né le altre siano arrivati a bersaglio, se da una parte danno l’idea dell’uomo da cui nessuno comprerebbe un’auto usata, dall’altra impongono una strategia politica internazionale di autentica prevenzione. Perché a forza di gridare al lupo, come fa il despota dei vani e vanitosi avvertimenti, bisogna comunque evitare che il lupo prima o poi arrivi, e quando magari uno meno se l’aspetta. Anche perché il sottofondo della sfida sa di nucleare, e non è proprio il caso di attendere che Kim Jong-un si tinga presto d’atomico, come pur promette e proclama.
Ma la reazione uguale e contraria con cui Donald Trump ha a sua volta aperto il bombardamento delle parole, non sembra meno impotente, e suona a sua volta sbagliata. Dire, come il presidente nordamericano ha detto, che se la minaccia nucleare nordcoreana continuerà, gli Usa faranno “fuoco e furia come il mondo non ha mai visto”, riflette solo uno sfogo personale neppure concordato col Pentagono. Che, infatti, ha reagito all’ennesima provocazione del Kim con un comunicato fermo, ma non apocalittico. Ragionare si deve sempre, soprattutto quando s’ha a che fare con annunci folli e iniziative pericolose.
E’ come se Trump alzasse la voce -pratica, peraltro, che ama esercitare contro tutti e tutto-, per solleticare l’orgoglio americano di fronte alla minaccia. Ma anche per abbassare l’attenzione su un altro scandalo internazionale, eppur casalingo: le indagini sul Russiagate, che proprio ieri hanno aggiunto un’altra notizia al già ricco mosaico: la perquisizione della casa di Paul Manafort, l’ex capo della campagna elettorale di Trump, da parte dell’Fbi. Investigatori a caccia di documenti fiscali e bancari per far luce su eventuali interferenze di Mosca nelle elezioni che portarono Trump alla Casa Bianca.
Guai a confondere le acque: Kim Jong-un è un problema di tutti, cinesi ed europei compresi. La vicenda russa è invece una resa dei conti tra democratici e repubblicani in America. Le guerre delle parole sono tutte ad alto volume. Ma non sono tutte uguali.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi