E’ come se la locomotiva, che va piano ma almeno è ripartita, non riuscisse più a trainare tutti i vagoni con sé. Da una parte gli esperti prevedono che la produzione di ricchezza in Italia sarà modesta, ma ci sarà: il famoso pil (prodotto interno lordo) dovrebbe registrare una crescita intorno allo 0,8 per cento alla fine del 2016. Poco, ma meglio che niente, e incoraggiante: forse torniamo a crescere. Dall’altra parte, però, l’Istat mette in guardia: poco più di un italiano su quattro, il 28,7 per cento della popolazione -ben diciassette milioni e mezzo di persone nel 2015-, è “a rischio povertà ed esclusione sociale”. Formula che nell’opulenta società occidentale non significa morire di fame, come capita nell’indifferenza dei più al dimenticato Sud del mondo. Significa, tuttavia, entrare nel tunnel di una crisi economica e interiore devastante: non riuscire a pagare le bollette alla scadenza, né a riscaldare a dovere le proprie case. Non poter sostenere importanti spese impreviste, né un pasto degno almeno una volta ogni due giorni. Niente vacanze, automobile, elettrodomestici. Significa campare, dunque, non vivere. E il peggio succede alle coppie con tre o più figli.
Non sono favole statistiche. Al contrario, è la fotografia di famiglie che ciascuno di noi conosce e può incontrare ogni giorno, perché orbitano intorno a un ceto medio sempre più tartassato e diviso, specie fra Nord e Sud. E’ il ritratto di chi si trova ai margini del benessere, aggrappato all’ultimo vagone che sempre più si stacca dal treno Italia.
La paradossale novità, che peraltro non è solo nostra come conferma il vento della protesta in tutta Europa e in America, è che la ripresa non è più garanzia di occupazione per tutti. Se l’Italia si rimette in cammino, come sembra, un cittadino su quattro non riuscirà comunque a tenerne il passo. E’ un disagio troppo diffuso e profondo perché la classe dirigente pensi di poterlo sottovalutare. L’esclusione sociale è un’ingiustizia di per sé, in una nazione che resta pur sempre fra le più ricche del pianeta. Ma è anche una miccia che alimenta ogni genere di rivolta. Quando il lavoro manca, oppure è saltuario, sottopagato, senza prospettive, si perdono la serenità familiare e la speranza di cambiare. Regna la paura di non farcela, la paura verso gli altri, italiani o stranieri. Il rischio povertà è inammissibile in un Paese dove aumenta realmente solo il divario fra chi ha moltissimo e chi ha pochissimo, mentre l’indebolito ceto medio sta a guardare.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi