L’allora ministro dell’Interno non ha sequestrato nessuno, né ha rifiutato di compiere atti d’ufficio. “Il fatto non sussiste”, ha sentenziato il tribunale di Palermo, assolvendo in pieno Matteo Salvini dalla doppia imputazione che avrebbe potuto costargli sei anni di carcere. “Ha vinto il buonsenso, ha vinto il concetto che difendere i confini e la Patria, contrastare gli scafisti, i trafficanti, le ong straniere e proteggere i nostri figli, non è un reato, ma un diritto”, ha commentato Salvini a caldo.
Era accusato di aver impedito, quand’era responsabile del Viminale nel governo gialloverde di Giuseppe Conte, lo sbarco di 147 migranti, rimasti per 19 giorni a bordo della nave spagnola Open Arms al largo di Lampedusa. Dopo che l’imbarcazione li aveva soccorsi in acque libiche. Correva il mese d’agosto di cinque anni fa.
Ma qui finiscono i fatti e cominciano le polemiche. Sulle quali, tuttavia, per la prima volta -perciò può diventare un importante precedente- un collegio giudicante della Repubblica italiana s’è espresso, chiamato a farlo su una decisione presa da un ministro nell’esercizio delle sue funzioni. Che potevano essere ovviamente contestate -e le opposizioni di centrosinistra l’hanno fatto con forza, ieri e oggi-, ma che, proprio per come i fatti si sono svolti, difficilmente potevano configurarsi come sequestro di persona. Per una vicenda molto simile un altro giudice, a Catania, aveva archiviato senza processo.
Ma il caso di Palermo ha preso subito una piega politica sull’onda non del Mediterraneo, tragico cimitero di migranti -come ricorda sempre Papa Francesco-, bensì di una contrapposizione ideologica sull’immigrazione fra l’attuale governo e le opposizioni, destra contro sinistra.
Il processo di primo grado è così diventato un braccio di ferro ben al di là dei suoi tre anni di durata, delle 24 udienze e dei 45 testimoni. Compresi, in tempi e modi diversi, i Vip: dall’attore Richard Gere, che all’epoca volle salire sull’imbarcazione per solidarietà alle persone in attesa, all’imprenditore Elon Musk, che in queste ore ha definito “folle” il processo a Salvini “per aver difeso l’Italia”.
Bordate contro e pro Salvini ad ogni livello, sullo sfondo di una visione opposta, ma deformata sul tema: far valere il rigore e il rispetto della legalità e dei confini di uno Stato? Oppure la compassione e la solidarietà verso persone indifese?
In realtà, la discussione è complicata per una ragione semplice: l’argomento non può essere tagliato con l’accetta, come vorrebbero gli opposti polemisti e testimonial. Rigore e compassione devono necessariamente andare a braccetto e le stesse norme, nazionali e internazionali, perfino quelle che l’Unione europea s’appresta ad aggiornare, evitano risposte dogmatiche sull’immigrazione. Umanità e realismo, tutela della persona e dovere di sicurezza convivono nel diritto.
Ma se non si violano le leggi -e il tribunale ha sancito che Salvini non le ha violate-, spetta ai governi degli Stati e all’Unione europea stabilire le regole per chi bussa alle porte di casa.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova