Il “valore” universale della fontana di Trevi

Finalmente una polemica costruttiva e priva di ideologismo: è giusto o no far pagare i turisti perché possano godere in pace -loro e noi- del più vasto patrimonio storico-artistico dell’umanità, che risiede in Italia?

Accertato che non è vero che “con la cultura non si mangia”, come disse una volta un ministro che poi negò d’averlo mai detto -dunque neanche lui credeva a tale baggianata-, vale la pena o no istituire il numero chiuso per ammirare e soprattutto mantenere la cultura italo-universale nell’interesse generale?

Tutte le strade della discussione portano a Roma dove, in previsione del Giubileo 2025, già si pensa a un ingresso contingentato e a un modesto contributo (pare 2 euro a testa) per rispecchiarsi nello splendore della fontana di Trevi. Quella che Totò riuscì a vendere a un malcapitato credulone, e che Anita Ekberg battezzò per sempre camminando tra le sue acque col “Marcello, come here”, vieni qui Marcello, ne “La dolce vita”. Forse la fontana più celebre del mondo val bene un prezzo pur irrisorio -un prezzo vero, non alla Totò-, se questa misura può servire per porre fine all’anarchia dei flussi e a tramandarne il fascino, tutelandola dai bivacchi e dai tuffi indecorosi nella vasca sotto lo sguardo impotente delle autorità.

Del resto, da oltre un anno già si pagano 5 euro per visitare il Pantheon. Anche se l’accesso è gratuito per una sfilza di categorie e per i ragazzi fino a 18 anni, e ridotto a 2 euro fino a 25.

Il costo del biglietto, come insegna pure la filosofia adottata a Venezia con il ticket giornaliero, peraltro con molte esenzioni e criteri limitati e particolari, punta alla deterrenza: scoraggiare le affluenze di massa e disorganizzate. Un po’ come le “partenze intelligenti” nelle estati autostradali: guai a viaggiare nei giorni dei bollini rossi e neri.

Non è, questo, un approccio giusto o sbagliato, bensì inevitabile. Perché si lega al sovraffollamento in periodi, luoghi o siti che non reggono alle invasioni. Non le reggono più neppure gli abitanti del posto e il rischio del cortocircuito è forte. Bisogna, invece, contemperare la libertà del visitatore con la tranquillità del residente e l’integrità del monumento, dell’opera, della città e del paesaggio fonti inesauribili del richiamo.

Sul tema, che per il nostro Paese è decisivo (il turismo rappresenta il 13% del Pil, siamo una delle cinque nazioni più visitate del pianeta), non esiste una soluzione ideale. E’ ovvio: sarebbe meglio evitare contributi che possono penalizzare le persone in difficoltà o le famiglie numerose. La cultura o è di tutti o non è di nessuno: non si scappa.

Ma il punto è come assicurare questo dovere con equità e realismo.

Nella cultura bisogna investire, anche introducendo pagamenti ben pensati, se della cultura vogliamo continuare a essere un faro per noi e per il mondo. Ma sul quanto, sul quando e sul come neanche Totò saprebbe oggi vendere a politici e amministratori la risposta definitiva.

Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi e Gazzetta di Mantova