Giusto il tempo che la legge finisca sulla Gazzetta Ufficiale e poi bisognerà fare attenzione agli scarponi da sci: uno pensa di averli messi in Veneto e invece si ritrova a doverseli togliere in Friuli-Venezia Giulia. Senza aver cambiato pista, passeggiate o discese, lassù, tra le magie di Sappada. Grazie all’ultimo e definitivo abracadabra della Camera (257 deputati a favore, 20 contrari, 74 astenuti), il Comune bellunese è appena passato da una Regione all’altra. L’onorevole trasloco è stato festeggiato con caroselli d’auto fra i non molti abitanti -meno di millecinquecento- di un luogo noto per il turismo d’inverno e d’estate. Ma il via dal Veneto verso il più luccicante Friuli è quasi un fuori-stagione, è la corsa verso chi sta ancor meglio del già benestante territorio finora considerato di casa. La differenza che ha ispirato l’addio, si chiama “specialità”. La nuova regione accogliente è una delle cinque più autonome d’Italia. Quella che piange l’abbandono dei suoi residenti è una delle quindici a statuto ordinario. Dunque, tra il Veneto e il Friuli c’è un mare di competenze in più, un potere legislativo superiore, il miraggio economico di crescere ancora e con maggiore forza. “Il voto della Camera è un atto di giustizia”, già si esalta Debora Serracchiani, la governatrice romano-friulana che ha vinto il braccio di ferro. “Roma continua a banalizzare, pensando che l’autonomia si possa sostituire con amputazioni ad hoc”, si deprime Luca Zaia, il governatore veneto sconfitto. Certo è che quest’atto formale è il primo nella corsa verso chi è più autonomo dell’altro. Il tiro alla fune del Veneto e della Lombardia, con i loro pur diversi referendum dagli esiti diversi per ottenere nuove e più forti prerogative dallo Stato, si spezza dove meno te l’aspetti: in casa propria. La piccola Sappada che se ne va per conto suo e bussa alla porta accanto. Trasferirsi di pochi metri verso una regione che, in virtù della sua specialità, può dare di più.
Eppure, lo strombazzato trasloco non basta. “Se siamo contenti di diventare più ricchi?”, si domanda Manuel Piller Hofer, il sindaco di Sappada. E così si risponde nel giorno del trionfo: “Calma, vediamo. Il Friuli è una cosa, l’autonomia del Trentino-Alto Adige un’altra”. Allude all’erba sempre più verde dell’altro e invidiato vicino, che trattiene il novanta per cento delle tasse nel proprio territorio. Nel suo piccolo, dunque, l’addio al Veneto testimonia dove può portare il “malessere da benessere”: alle mini-secessioni continue verso l’Eldorado del vicino accanto. Porta al rifugio sotto l’ala protettiva delle cinque regioni a statuto speciale, privilegio anacronistico invidiato dalle quindici ordinarie che pedalano senza gli stessi vantaggi.
Del resto, da tempo la ricca Cortina d’Ampezzo è in lista d’attesa per fare un salto nell’ancor più ricco Alto Adige, e restarvi. Se non è ancora successo, è perché Bolzano, che comprende lo straordinario valore aggiunto di Cortina, ne teme la ricaduta sul piano dell’equilibrio linguistico, visto l’eventuale arrivo di nuovi residenti di lingua italiana. Ma nel frattempo un gruppo di sette Comuni della Valmarecchia già ha fatto, grazie a una legge del 2009, un cambio alla pari: dalle Marche all’Emilia-Romagna, entrambe regioni a statuto ordinario. L’andirivieni istituzionale è di gran moda.
Non manca, nel caso di Sappada, un aspetto surreale, che però spesso accompagna le richieste di separazione, per cercare di abbellirle. Era dal lontano 1852 -informano i neo-liberati dal Veneto- che il Comune bellunese era stato “ingiustamente separato dal Friuli”. In realtà quell’epoca risale al non rimpianto impero austriaco. Ma con l’immaginario indietro tutta s’alimenta il mito dell’eterno ritorno e si giustifica la “rivoluzione” su un piano un po’ più nobile della prevalente scelta di convenienza.
Si sono sentite forti perplessità procedurali (per esempio: il parere della Regione Veneto non è stato formalmente acquisito) e politiche nella discussione finale alla Camera. Ma Sappada diventa anche uno spunto concreto per riflettere su un ordinamento che, a settantun anni dalla nascita della Repubblica, non regge più: cinque Regioni speciali avanti a tutte, pur rappresentando soltanto una parte minoritaria dei cittadini italiani residenti nelle altre quindici. Si pensi che il grande Piemonte è a statuto ordinario e la minuscola Valle d’Aosta specialissima. E’ un regionalismo a fisarmonica che crea profonde disparità di trattamento fra gli stessi cittadini italiani, e finisce per spingere le piccole fughe di Comuni verso lidi migliori.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma